tag:blogger.com,1999:blog-19514815613987921762024-03-05T19:29:14.840+01:00Vie d'Uscita<br>
<b>Fuori il vapore!</b>
<br><br>
<b><i>Steam out!</i></b>Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.comBlogger294125tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-61339205778421716362022-07-28T20:19:00.003+02:002022-07-29T11:21:25.955+02:00Futuro nero<p>Alla festa di addio di amici che si trasferivano, chiacchieravo con un tizio appena conosciuto. </p><p>Non so come siamo finiti a parlare della mia storia personale, di come sono arrivato qui e di cosa feci allora, ed in particolare di tutta una serie di previsioni che feci e in base alle quali impostai il mio lavoro, quando cambiai completamente professione per seguire la famiglia. </p><p>Gli ho raccontato di quando avevo previsto con molto anticipo la grave crisi finanziaria del 2007/2008. Di come tentai di avviare un grande progetto internazionale di informazione economica, nel disinteresse generale, in quegli anni in cui si dava per scontata la vittoria americana della Guerra Fredda ed il conseguente benessere crescente per sempre. Quella che con sin troppo entusiasmo e troppa fretta, un politico e politologo americano definì "la fine della Storia", salvo poi farsi smentire clamorosamente dagli attentatori dell'11 settembre 2001. <br /><br />Gli raccontai di come quel progetto che non trovò estimatori, finii per riconvertirlo per parlare di salute -argomento ben più federatore- e di come finii per produrre, tra l'altro, un documentario che analizzando la storia della SARS, annunciava l'arrivo, prima o poi, di quello che sarebbe stato il Covid (SARS2). <br /><br />E gli raccontai di quando chiacchierando con amici nel 2019, qualche mese prima delle elezioni presidenziali statunitensi, spiegai che se avesse rivinto Trump (esito poco probabile) sarebbero stati guai per l'economia americana e per il loro posizionamento internazionale, ma che se avesse vinto Biden sarebbero stati guai grossi per tutti gli altri, a partire dall'Europa e la Russia, e che l'Ucraina sarebbe stata mandata al macello, usata come un grimaldello per scardinare le velleità europee e russe di liberarsi dell'oramai inutile egemonia americana. </p><p>Non avevo la sfera di cristallo. Semplicemente sono un giornalista ed avevo seguito il golpe ucraino del 2013/'14, quando ad incitare dalle barricate i rivoltosi contro il presidente ucraino, colpevole di non essere sufficientemente filooccidentale, c'erano diversi politici americani, e quando negli anni successivi, molti numeri due dell'amministrazione Obama, a partire dal vicepresidente Biden, si concentrarono nel tentativo di spingere l'Ucraina alla rivolta contro lo storico alleato russo, contro la maggioranza degli ucraini, che se nelle regioni occidentali guardavano a Bruxelles e a Washington, nel resto del Paese votavano compattamente per la sicurezza del rapporto privilegiato con Mosca. <br /></p><p>Per una volta che qualcuno mi ascolta, mi sono lasciato andare. Lui era affascinato. <br />Mi ha chiesto cosa prevedo per il futuro. </p><p>Lì per lì non mi è proprio venuto in mente di fare vaticinii. <br />Ripensandoci, credo di poter prevedere un futuro grigio per l'Europa Unita. Un futuro già iniziato nel momento in cui le pressioni e le provocazioni americane con lo spauracchio della NATO hanno spinto la Russia di Putin ad invadere l'Ucraina, in difesa degli Ucraini filorussi bombardati oramai dal 2014, ma anche in difesa dei propri confini, oramai minacciati esplicitamente dai progetti di adesione alla NATO, il che vorrebbe dire avere armi e truppe storicamente (e potenzialmente) nemiche a pochi passi da Mosca, senza neanche ostacoli naturali a poterne rallentare l'eventuale avanzata. </p><p>Gli Stati Uniti stanno vivendo un momento difficile. Sono profondamente spaccati tra destra e sinistra, tra straricchi e strapoveri, tra conservatori ed antirazzisti, tra antiabortisti e liberal... Il loro predominio economico è messo a rischio dall'emergere di economie alternative, dalla Cina, all'India, al sudamerica non più controllabile con colpi di stato e dittature, oggi che la scusa della minaccia comunista non ha più senso. </p><p>Il rischio di conflitto civile è tutt'altro che peregrino, vista la quantità e qualità di armi che circolano e le milizie paramilitari che prosperano. D'altronde già oggi le frequenti sparatorie a sfondo razziale o religioso, sarebbero considerate un conflitto in qualsiasi altro Paese occidentale. </p><p>La guerra "al terrorismo" ha perso smalto, ragione di essere e credibilità, visto, tra l'altro, che gli Stati Uniti continuano a sostenere senza compromessi l'Arabia Saudita, principale sponsor del fondamentalismo islamico. <br /></p><p>Per riunificare il Paese (soprattutto i conservatori) e rimettere il guinzaglio agli alleati europei, che iniziavano a rimettere in discussione persino la NATO, gli Stati Uniti avevano bisogno di un nuovo nemico. E perché cercarne uno nuovo, se si può riciclarne uno vecchio, che nell'immaginario occidentale è sempre rimasto, se non propriamente ostile, almeno inaffidabile, con il suo rifiuto di allinearsi. <br />Ed ecco gli studi dei consulenti del Pentagono che da anni analizzavano le diverse opzioni per destabilizzare la Russia e costringere gli europei a smettere di trattarla da partner politico e commerciale. <br />L'ipotesi favorita era l'Ucraina, con "costi" contenuti, facilità di esecuzione e "benefici" rilevanti (in termini di danni alla Russia. </p><p>E quale momento migliore per dare la spintarella finale, che questo momento, con l'Europa distratta e indebolita da anni di emergenza Covid e dal disastro della Brexit, ed in piena crisi politica, con l'uscita di scena di esponenti politici di primo piano e grandezza e l'Unione Europea in mano a nani politici, come la Van der Leyen, la Metsola, o i tanti dimenticabilissimi dirigenti nazionali, tra i quali sembra un gigante persino una mezza calzetta come Macron. </p><p><br /></p><p>E quindi vedo un futuro grigio. Nel momento in cui l'UE aveva saputo contenere il tumore della Brexit e restituire agli inglesi il prezzo del nazionalismo esasperato ed inutile che non avevano saputo gestire; quando stava faticosamente contenendo gli altri nazionalismi stupidi di polacchi ed ungheresi, favoriti dai meccanismi di funzionamento dell'Unione, e proprio mentre l'UE stava riuscendo a fare fronte comune contro i populismi più beceri, ecco che Putin, che da quasi dieci anni si limitava a sostenere gli Ucraini filorussi, si trova minacciato apertamente di trovarsi la NATO ai confini. Non più i limitati confini Baltici, ma le interminabili e indifendibili pianure meridionali, da cui potrebbero facilmente tracimare i nuovi "barbari", un nuovo Napoleone o un nuovo Hitler come quelli del passato che ancora abitano gli incubi dei Russi. </p><p>Ed i leader europei, colti alla sprovvista perché tutti troppo occupati con i loro piccoli problemi interni, non hanno saputo fare altro che accodarsi ciecamente ed acriticamente al vecchio padrone americano. Burattini contro i nostri stessi interessi. Oramai troppo implicati per poter azzardare i passi indietro che visibilmente i meno peggiori vorrebbero iniziare a fare adesso che ci arrivano addosso le prevedibili conseguenze del nostro coinvolgimento in un conflitto che non ci riguardava. </p><p>Sarà difficile rialzarsi, dopo esserci ciecamente autosabotati con sanzioni che paghiamo soprattutto noi (assurdo bloccare le importazioni di gas e greggio russo per ricomprarlo dagli americani a prezzi enormemente maggiorati ed in quantità molto inferiori!). </p><p>Sarà dura tornare ad essere centrali, dopo aver trattato da paria un prezioso e vicino alleato ed aver restituito il comando agli Stati Uniti, rinunciando ad essere trattati da pari a pari. </p><p>Sarà dura recuperare la credibilità perduta, dopo che l'UE delle frontiere chiuse e dell'immigrazione controllata ha accolto in massa milioni di ucraini al grido di "sono come noi", perché presumibilmente alti belli e biondi (Ariani?) e nominalmente cristiani (anche se è la prima volta che consideriamo davvero tali gli ortodossi), ma non troppo. </p><p>Dopo questa continentale dimostrazione di razzismo, come potremo tornare a considerarci la culla della civiltà e della tolleranza? Come potremo dirci diversi da chi discrimina su base razziale? <br /><br />L'Europa in cui credevo come faro di futuro si è azzoppata da sola. Ovunque prosperano i peggiori nazionalismi, i populismi più inetti... </p><p>Prevedo anni difficili. Spero non si arrivi alla catastrofe. </p><p>Ho sempre saputo che la storia va avanti per cicli, tornando spesso un bel po' indietro. </p><p>Speravo di risparmiarmi il ciclo che vedo arrivare. Probabilmente mi ero illuso, un po' come quell'americano della "fine della storia" (Francis Fukuyama), che la Storia stesse andando davvero nella giusta direzione. </p><p>Spero che sia vero l'adagio per cui la Storia si ripete sempre, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Ma temo che anche una versione farsesca dei nazionalismi dello scorso secolo ci costerà enormemente cara, oggi. Anche perché il pericolo rappresentato dall'arsenale nucleare statunitense, prima ancora che russo, non ha fatto che aumentare. </p><p><br /></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjIceoe-V6-KYTIPJYMTozmxYcr6VD0ENEGJRdXhS1-OIWpw8r8q-hyAbwl4EZL_yB3v6N7R6r__y3EiK9oJhEjBgjiPUrH6zlO7eX2mbCKETmTy2ddIKT7j9JL-o7EznXgmg6m42_BwGAShdpmwtYR0oVyGk6Pz0O6jppOG9KAZ1do5GGpHVJMHP89Jw/s1200/futuro.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1194" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjIceoe-V6-KYTIPJYMTozmxYcr6VD0ENEGJRdXhS1-OIWpw8r8q-hyAbwl4EZL_yB3v6N7R6r__y3EiK9oJhEjBgjiPUrH6zlO7eX2mbCKETmTy2ddIKT7j9JL-o7EznXgmg6m42_BwGAShdpmwtYR0oVyGk6Pz0O6jppOG9KAZ1do5GGpHVJMHP89Jw/s320/futuro.jpg" width="318" /></a></div><br /><p><br /></p>Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-87133283226684207812022-03-10T09:43:00.001+01:002022-07-28T18:40:45.436+02:00Facebook sucks Riprendo in mano questo vecchio blocco degli appunti dimenticato in un cassetto da anni, per uno sfogo. <br />
D'altronde questo blog (da web log: diario online) è nato proprio per questo: sfogarmi ("Steam out!") <br /><br />
Facebook fa schifo. <br />
È gestito da schifo, è frequentato da schifo ed è progettato per fare schifo, per renderti dipendente dall'interazione virtuale, quindi per "triggerarti", come si dice oggi con orrido neologismo dall'inglese, ossia per attivare continuamente la reazione del cervello, facendoti sentire continuamente sotto attacco e nel bisogno di reagire. <br /><br />
Però è anche ipocrita. Un simile gigante non può cavarsela esplicitando quello che oramai sanno tutti (anche da interviste a dipendenti e dirigenti che ne sono usciti), ossia che facebook campa fomentando malessere. <br />
E allora finge di voler moderare il razzismo, l'omofobia, la violenza... che invece provocano reazioni e aumentano il traffico (che poi è ciò che facebook vende: sul traffico basa le tariffe pubblicitarie e la profilazione degli utenti). <br /><br />
In realtà attiva una serie di filtri che le permettano di dire che modera i contenuti, senza farlo davvero. Filtri che lasciano passare ogni sorta di disinformazione, di proclami razzisti, omofobi ecc., ma che poi puniscono a caso chi usa determinate espressioni. <br /><br />
Io facebook lo uso principalmente per sondare l'opinione pubblica su determinati argomenti, lo uso come newsfeed (nel senso che ho selezionato una serie di fonti di stampa o altro che condividono informazioni che mi interessano. Non le prendo per oro colato, ma mi offrono una panoramica di ciò di cui si parla al momento). <br /><br />
Lo uso anche per partecipare al dibattito pubblico, offrendo analisi, spunti ed opinioni diverse da quelle che circolano. Opinioni ragionate, non reazioni pavloviane, come la gran parte dei commenti di quella piattaforma idiota. Mi assicuro di essere sempre in grado di poter difendere le cose che scrivo. Sono un giornalista, dopo tutto. So come si fa e quanto sia importante. <br /><br />
E lo uso per reagire all'odio montante regolarmente contro questi o contro quelli, per chiedere una società più giusta ed aperta, per discutere le scelte dei miei politici di riferimento. Per dare testimonianza dell'esistenza di opinioni come le mie sui grandi temi dell'attualità: antifascista, antirazzista, ma soprattutto non prono a narrazioni uniche, a visioni manichee della geopolitica o della morale. <br />
Non ho paura di esprimere opinioni controverse, perché spesso sono controverse solo perché derivano da un ragionamento complesso, che prende in considerazione i diversi punti di vista, anziché schierarsi a priori per questo o per quello. <br />
Opinioni che sono perfettamente in grado di argomentare all'interno di una discussione aperta. <br /><br />
Non ho mai preteso di aver ragione. Pretendo di stimolare ragionamenti. Sono sempre pronto a cambiare idea. Esigo che chi mi chiede di farlo mi convinca proponendo e sviluppando argomenti e non gridando più forte di me. <br /><br />
Mi aspetterei di essere censurato per i contenuti di ciò che scrivo, soprattutto in questi giorni di guerra, in cui contesto la vigente narrazione bellicistica favorevole a questi o quelli, ma siccome sto attento ad argomentare, le mie tesi non possono essere taggate semplicemente come "fomentare odio" (anche perché in genere mi scaglio proprio contro chi lo fa). <br /><br />
Mi hanno censurato per una battuta sul post di un amico in visita turistica a Roma: gli avevano chiesto 20 euro per uno spritz ed io gli ho risposto ":'-D 20 euro? Dovrebbero bruciarlo, quel posto! :'-D" <br /><br />
Per facebook sarebbe istigazione a delinquere. Aggiunta ad altre battute simili negli scorsi mesi e anni, che neanche sapevo fossero state archiviate come contestabili, mi hanno classificato come seminatore di odio. <br />
E mi hanno bloccato la possibilità di postare e commentare (persino di mettere like) per un mese. <br /><br />
Però, ovviamente, vista l'ipocrisia della piattaforma, non hanno sospeso il mio account, né nascosto i miei post o commenti. Quindi chiunque può ancora reagire, anche insultarmi, senza che io possa rispondere. <br /><br />
Che facebook venga gestita così è preoccupante perché, volenti o nolenti, facebook è diventato, se non l'unica, una delle principali agora del dibattito pubblico di questi anni, su cui nascono e muoiono iniziative culturali e partiti politici. Spesso i peggiori, proprio a causa dell'appiattimento del dibattito su slogan semplici e quindi necessariamente stupidi e superficiali. <br /><br />
Questo sfogo lo posto qui, nel mio quaderno degli sfoghi che probabilmente non leggerà mai nessuno, visto che scrivo talmente di rado che immagino il mio blog non sia neanche più seguito dai bot di google. Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-31651859278202264902020-03-26T16:11:00.003+01:002020-03-26T17:06:03.119+01:00Garfunkel and Oates I really LOVE these two!<br />
They are so politically incorrect they might easily be from Rome!<br />
I adooOORE them!<br />
💓💓💓<br />
<iframe width="560" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/B3cTEjGdPTg" frameborder="0" allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen></iframe>Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-61285757472922821492019-03-21T10:36:00.000+01:002019-03-21T19:07:18.520+01:00Riassunto dall'Italia L'autista che ha sequestrato un pullman di ragazzini e gli ha dato fuoco era italiano di origini senegalesi.
Era impazzito dal dolore per i bambini lasciati ad annegare nel mediterraneo.
(Pare che abbia affermato che tra i morti ci fossero anche le sue tre figlie).
Il bambino che ha nascosto il telefono e dato l'allarme consentendo di salvare tutti è anche lui di origini africane: marocchine. Si chiama Samir.
L'autista afferma che voleva solo fare un gesto eclatante e, in effetti, non ha fatto del male a nessuno (ha distrutto il pullman e ha messo a rischio gli ostaggi, ovviamente. Non ci sono giustificazioni che tengano, per questo!).
Si diceva esasperato per i bambini morti in mare. Bambini che Salvini oggi vuole lasciar annegare in mare (Non è il solo e non è neanche il primo, ma lui ne ha fatto la sua bandiera politica). Continua a tentare di farlo in spregio alla legislazione nazionale ed agli accordi internazionali, tanto che finisce inquisito per gli abusi contro i migranti salvati da una nave militare italiana.
Nelle stesse ore, gli "onesti" che si dicono diversi lo salvavano proprio dal processo (ci fosse mai uno si salva NEL processo dimostrando le proprie ragioni!) proprio mentre il loro numero due nella Capitale veniva arrestato per corruzione (patente, oserei dire, viste il tenore esplicito delle conversazioni intercettate e degli elementi già emersi).
Ossia i 5 stelle hanno gettato al vento la loro credibilità di giustizialisti (il loro caposaldo ideologico), per salvare l'alleato accusato di crimini, che se li sta sbranando pezzo a pezzo. CONCLUSIONE:
Questi che dovevano essere diversi si stanno dimostrando più uguali degli altri. Solo meno capaci.
Quello che si è erto a portabandiera e leader dei cattivisti sta vincendo su tutta la linea.
L'opposizione annaspa, tutta presa a discutere di sé stessa e cieca al volere dei suoi elettori (Zingaretti che appena eletto come novità si lagna del voto sul referendum di Renzi è assurdo! Sembra che VOGLIA perdere! Che votiamo a fare se tanto il messaggio non arriva mai?)
Sullo sfondo c'è un Paese alla deriva, nuovo, con italiani nuovi perfettamente integrati di cui non parla mai nessuno (si parla sempre solo di criminali).
Un Paese che nessuno rappresenta.
Un Paese che una politica razzista e senza argomenti sta spingendo verso la guerra civile ed il terrorismo per poi poter dire "ve l'avevamo detto", mentre l'opposizione discute sul proprio ombelico.
Ma le basi per questo scontro non c'erano.
Il razzismo non c'era.
La povertà diffusa non c'era.
Era da quarant'anni che non c'era più bisogno di alcun conflitto sociale e che chi ne aveva bisogno politicamente doveva inventarselo (gli attentati di mafia per spingere Berlusconi, la guerra di quest'ultimo a inesistenti "comunisti", i separatismi delle regioni che traggono maggiori vantaggi dallo Stato unitario...).
E invece oggi Salvini ci sta riuscendo a creare il conflitto di cui ha bisogno, complice un'opposizione ombelicale, cieca e quasi muta ed una stampa generalmente sempre più pigra e sempre più ancella dei tempi e dei modi dei social media, che poco si prestano ad un giornalismo serio.
Non so se provo più schifo o più paura. Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-38067925115858015672019-03-05T16:35:00.001+01:002019-10-15T17:49:40.075+02:00Decades of research confirms that having kids make people unhappy<a href="https://bigthink.com/sex-relationships/should-you-have-kids">https://bigthink.com/sex-relationships/should-you-have-kids
</a>Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-85573696850095496722018-04-10T17:48:00.001+02:002019-10-15T17:49:58.150+02:00 New hope for depression <a href="http://www.bbc.com/news/health-41608984">http://www.bbc.com/news/health-41608984</a>Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-1923483133214378722017-07-03T09:53:00.001+02:002019-10-15T17:50:39.912+02:00Not the right time to be a manThis May Be Responsible for the High Suicide Rate Among White, American Men | Big Think
<a href="http://bigthink.com/philip-perry/this-may-be-responsible-for-the-high-suicide-rate-among-white-american-men">http://bigthink.com/philip-perry/this-may-be-responsible-for-the-high-suicide-rate-among-white-american-men</a>Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-24042319722209210022017-06-15T23:25:00.001+02:002020-05-05T15:46:06.374+02:00Mediocrazia<a href="http://www.lastampa.it/2017/05/29/cultura/mediocri-di-tutto-il-mondo-vi-siete-uniti-e-avete-vinto-xTCMdydTSMC4zL1moCDPtK/pagina.html">http://www.lastampa.it/2017/05/29/cultura/mediocri-di-tutto-il-mondo-vi-siete-uniti-e-avete-vinto-xTCMdydTSMC4zL1moCDPtK/pagina.html</a>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-65632711178464750442017-06-03T08:15:00.001+02:002017-06-03T08:29:51.805+02:00Il Canto degli Italiani<p dir="ltr">Ridicolo che in Italia si continui a rimettere in discussione inno e bandiera, come se fossimo al televoto di Sanremo! <br>
Sono simboli che hanno senso solo in quanto tali, immutabili, di riferimento. <br>
Un inno è un simbolo di unità. Chi si divide su quale dovrebbe essere non ha capito di cosa si tratti e si dimostra non qualificato per parlarne credibilmente. </p>
<p dir="ltr">Ancora più ridicolo chi vorrebbe un inno operistico, in nome della grande tradizione musicale italiana, ecc. ecc. <br>
Come chiedere di sostituire la bandiera con una riproduzione del Giudizio Universale di Michelangelo. </p>
<p dir="ltr">Per non parlare dei tifosi del "Va' pensiero". Lo so che fu composta come critica metaforica al "faraone" austriaco, ma è un canto di esilio. Che c'entra con l'Italia? Al limite potrebbe essere l'inno degli emigranti! </p>
<p dir="ltr">Infine una considerazione. Tra le tante proposte, dalla Leggenda del Piave (che io amo e uso come suoneria) alla proposta di usare l'intero testo del Canto degli Italiani, al Va' pensiero, si tratta sempre di testi puramente settentrionalisti ed anti austriaci. Come se la Storia d'Italia si riducesse all'annessione di Lombardia e Triveneto strappate all'odiato invasore austriaco ed il resto d'Italia (geograficamente e storicamente) non contasse nulla. <br>
Nei versi dell'Inno Nazionale Italiano (quelli adottati come inno, non la versione completa del Canto) si parla di Italiani, di fratellanza, di orgoglio, di lotta comune e spirito di sacrificio. <br>
In maniera superficiale, non analitica. In maniera tronfia e retorica, come ci si aspetta da un inno. <br>
A me sta bene così.</p>
<p dir="ltr">---- </p>
<p dir="ltr">Fratelli d’Italia<br>
L’Italia s’è desta,<br>
Dell’elmo di Scipio<br>
S’è cinta la testa.<br>
Dov’è la Vittoria?<br>
Le porga la chioma,<br>
Ché schiava di Roma<br>
Iddio la creò.</p>
<p dir="ltr">Stringiamoci a coorte<br>
Siam pronti alla morte<br>
Siam pronti alla morte<br>
L’Italia chiamò. </p>
<p dir="ltr">https://youtu.be/DeDmsIMwQX8 <br>
</p>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-71598480332852812722017-04-03T09:56:00.000+02:002017-05-23T16:27:20.490+02:00The Debater My personality type is the Debater, Turbulent version: ENTP-T<br />
<a href="https://www.16personalities.com/entp-personality">https://www.16personalities.com/entp-personality</a><br />
<br />
I go on thinking a well functioning brain is not a blessing, but rather a curse.<br />
<br />
Life would be much easier as a stupid instinct-driven animal.Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-75456950482534220792016-07-28T11:49:00.001+02:002017-06-15T23:24:55.438+02:006 surprising downsides of being extremely intelligent <p dir="ltr">6 surprising downsides of being extremely intelligent | Lifestyle | The Independent http://www.independent.co.uk/life-style/6-surprising-downsides-of-being-extremely-intelligent-a7155196.html</p>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-42013899019673457352015-12-28T07:03:00.001+01:002016-02-03T17:15:57.805+01:00Repubblica: Quei piccoli borghi antichi in via di estinzione<a href="http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/viaggi/2015/12/09/news/borghi_italiani_dimenticati_e_a_rischio-129076374/">http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/viaggi/2015/12/09/news/borghi_italiani_dimenticati_e_a_rischio-129076374/</a><br />
<br />
<div class="rightMenuButton" id="rightMenuButton">
<a class="menuButton" href="http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/viaggi/2015/12/09/news/borghi_italiani_dimenticati_e_a_rischio-129076374/#notarget" id="toggleProfile">
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Quei piccoli borghi antichi in via di estinzione
</a>
</h1>
<div style="width: 75%;">
di MICOL PASSARIELLO</div>
<br />
<span class="dateTime">ore 12.57 del 9 dicembre 2015</span>
<br />
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<div class="summary">
Da Civita di Bagnoregio nel Lazio a Bussana Vecchia di
Sanremo, dalla Castelluccio di Norcia della Fiorita a Morano Calabro.
C'è un'Italia che merita di essere vista... e alla svelta, perché
rischia di scomparire
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<table cellpadding="0" cellspacing="0"><tbody>
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<br /></td></tr>
</tbody></table>
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<div class="articleBody">
Arroccati tra le rocce di un monte. Nascosti nella fitta
vegetazione di un bosco. Appollaiati in cima a una ripida scogliera.
Piccoli, antichi, semideserti: l'Italia è costellata di borghi in via
d'estinzione. Sono paesi che vanno scomparendo, abbandonati da secoli
perché afflitti da terremoti, carestie o semplicemente dal richiamo
della vita di città. Vivono sospesi nel tempo, abitati da poche anime ma
pieni di fascino, storia e arte.<br />
<br />
A partire da Civita di Bagnoregio, all'estremo Nord della Tuscia
laziale. Ci si arriva percorrendo un lungo ponte pedonale, perché il
paese si trova in cima a un'altura di tufo bianco, e galleggia in mezzo a
una valle come un'isola.<br />
<br />
<img class="lazy" src="http://m.repubblica.it/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074503881-7c01a71f-ac59-44a1-a0dc-5161dc5b2b33.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" data-rc-nocrop="true" data-src="/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074503881-7c01a71f-ac59-44a1-a0dc-5161dc5b2b33.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" height="384" style="opacity: 1;" width="640" /><br />
Da circa due secoli è abitata solo da una ventina di persone. Le case in
pietra circondano la cattedrale, tra balconcini fioriti, vicoletti e
arcate con vista sulla valle. A proposito di vista, offre un bel colpo
d'occhio l'Hostaria del Ponte, affacciata sul dirupo: provate le ricette
della zona, come la pasta acqua e farina.<br />
<br />
Restando nel Lazio, a una settantina di chilometri dalla Capitale si
trova Cervara di Roma, piccolo comune che segna la porta d'ingresso al
Parco Naturale dei Monti Simbruini. Immerso nel verde delle faggete, è
affacciato sulla Valle dell'Aniene e sui monti vicini: questo paese era
meta prediletta di artisti e stranieri che vi si ritiravano per le sue
bellezze naturali. Oggi offre una passeggiata vivace ricca di murales e
sculture, tra abitazioni quattrocentesche e tortuose stradine, la
caratteristica scalinata che costeggia la Chiesa di S. Maria in Ruvo, la
Casa del Capitano, la Torre del Trecento e la chiesa di S. Stefano
Protomartire, fino alla fortezza medievale in cima allo sperone, con una
vista mozzafiato sulla valle.<br />
<br />
<img class="lazy" src="http://m.repubblica.it/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074424350-ee654a76-819b-4302-babc-35d56c6ff206.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" data-rc-nocrop="true" data-src="/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074424350-ee654a76-819b-4302-babc-35d56c6ff206.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" height="384" style="opacity: 1;" width="640" /><br />
All'interno del Parco Nazionale del Gran Sasso, in Abruzzo, troviamo
Santo Stefano di Sessanio, un piccolo borgo di origine medievale
completamente costruito in pietra calcarea bianca, abitato da un
centinaio di residenti, che oggi sta vivendo una seconda vita. Dopo
essere stato terra della famiglia Medici, il borgo ha subito un lento ma
inesorabile decadimento. Disabitato, lasciato morire sotto l'incuria
del tempo e dell'abbandono, è rinato grazie all'idea di un imprenditore
svedese che ne ha fatto uno splendido albergo diffuso. Niente è stato
cambiato: ogni casa, strada e piazza è stata ristrutturata mantenendo il
disegno originario. Si soggiorna nelle dimore d'epoca e si cena nella
locanda, gustando piatti poveri della tradizione, come la zuppa di
lenticchie servita con quadratini di pane fritto in olio di oliva.<br />
<br />
<img class="lazy" src="http://m.repubblica.it/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074545830-683fea78-1fbb-4147-9f4b-7200fad0d46c.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" data-rc-nocrop="true" data-src="/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074545830-683fea78-1fbb-4147-9f4b-7200fad0d46c.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" height="384" style="opacity: 1;" width="640" /><br />
Vicino a L'Aquila c'è Scanno, piccolo centro incastonato fra i Monti
Marsicani e il Parco Nazionale d'Abruzzo. Tra le sue strade si trovano i
resti di un'antica epoca d'oro: la corte del seicentesco Palazzo
Tanturri de Horatio, fontane con stemmi nobiliari, la chiesetta di S.
Maria di Costantinopoli con l'affresco della Madonna in trono, Porta
della Croce, ricordo quattrocentesco dell'antica cinta muraria. Scanno
offre una passeggiata ricca di arte e storie, tra palazzetti nobiliari e
fontane barocche, arcate e vicoli incantati, botteghe di artigiani e
locande d'antan dove assaggiare sagne e fagioli, maccheroni alla
chitarra oppure i tipici cazzellitti con le foglie.<br />
<br />
In Umbria è Castelluccio di Norcia, in provincia di Perugia, a
sorprendere i visitatori con le sue atmosfere fuori dal tempo. Si trova a
una mezzora da Norcia, appollaiato a 1452 metri d'altezza nel Parco
Nazionale dei Monti Sibillini, in Valnerina. In un labirinto di stradine
che salgono e scendono, si arriva al cuore del centro: attraversando la
vecchia fortificazione cinquecentesca, di cui rimane solo un portale,
ci si ritrova nella piazzetta della chiesa di S. Maria Assunta, del
1500. Anche la tradizione culinaria fa parte del suo patrimonio storico:
accomodatevi alla Locanda Dè Senari o all'Antica Cascina Brandimarte e
assaggiate le eccellenze del posto, dal tartufo nero alla lenticchia, i
salumi e i prodotti della norcineria, i formaggi, miele, farro e altri
cereali.<br />
<br />
<img class="lazy" src="http://m.repubblica.it/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074315390-c07482c5-fb3d-46e8-9a4c-3b752e713990.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" data-rc-nocrop="true" data-src="/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074315390-c07482c5-fb3d-46e8-9a4c-3b752e713990.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" height="384" style="opacity: 1;" width="640" /><br />
Vicino a Sanremo, poi, incontriamo Bussana Vecchia, una frazione sulle
colline liguri abitata e dinamica fino a fine Ottocento, resa inagibile
da una violenta scossa di terremoto nel 1887. Fino agli Sessanta è
rimasta abbandonata. A salvarla è stata una comunità di artisti, che
l'ha ristrutturata e trasformata in un villaggio creativo e bohemienne.
Oggi è una meta turistica vibrante di storia e arte, con mostre di
pittura, musica dal vivo, mercatini di artigianato tra i vicoli, letture
e proiezioni. Fermatevi all'Osteria degli artisti, il locale più antico
del borgo: dalla bella terrazza si gusta il panorama e le specialità
della cucina locale.<br />
<br />
<img class="lazy" src="http://m.repubblica.it/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074221304-3b2ca067-939e-4139-87cc-f0f7c18765fc.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" data-rc-nocrop="true" data-src="/ratiocrop?width=768&location=http://www.repstatic.it/content/nazionale/img/2015/12/09/074221304-3b2ca067-939e-4139-87cc-f0f7c18765fc.jpg&offset=12&relOffset=true&prevResizeDirective=absolute" height="384" style="opacity: 1;" width="640" /><br />
Più a Nord, nell'Alto Monferrato, su uno sperone roccioso alla sinistra
del fiume Orba sorge Rocca Grimalda (Alessandria). Il borgo si sviluppa
intorno al maestoso Castello Grimaldi, del Duecento, caratterizzato da
una torre circolare a cinque piani che domi- na l'ampia valle dell'Orba.
Dagli anni novanta questo piccolo centro vive un periodo di rinascita e
turismo, grazie al suo fascino decadente e agli ottimi vini locali, tra
cui il Dolcetto di Ovada e il Barbera del Monferrato, che invitano a
percorsi enogastronomici tra le tante cantine di zona.<br />
<br />
Dalla parte opposta dello Stivale, scendendo in Basilicata, il piccolo
borgo di Castelmezzano (Potenza) dà il benvenuto sulle Dolomiti Lucane.
Disteso su una parete di guglie e rocce, ha conservato la struttura
originaria medioevale. Le case, con i tetti in lastre di pietra
arenaria, sono circondate da scale ripide che invitano ad arrampicarsi
in cima al centro storico. Passeggiando tra i palazzi gentilizi del
borgo sono da vedere Chiesa Madre di S. Maria, del XIII secolo, la
Cappella di S. Maria, la chiesa rupestre della Madonna dell 'Ascensione
scavata tra le rocce, i resti del fortilizio normanno-svevo e il
cimitero prenapoleonico.<br />
<br />
Quindi, Morano Calabro, alle pendici del Pollino, uno dei centri storici
più suggestivi della Calabria. Le architetture medievali e
rinascimentali si fondono alle bellezze della natura: la pietra degli
archi, dei torrioni e delle case si mescola con i monti circostanti e
crea una cartolina che ricorda un vecchio presepe con le casette con i
tetti rossi e i vicoli stretti che salgono al castello. Molte le soste
storiche: la Chiesa di S. Bernardino da Siena in stile tardo-gotico è un
esempio di architettura monastica quattrocentesca, il Castello di
origine normanna, l'antica Collegiata dei SS. Pietro e Paolo, e il
Convento dei Cappuccini, con l'austero chiostro seicentesco. Per le
viuzze del centro gli odori della cucina invitano a entrare nelle
trattorie tipiche per una degustazione di prodotti e piatti locali, come
i rascateddri, maccheroni con sugo di salsiccia e il tradizionale
stoccu e pateni, stoccafisso con patate e peperoni secchi.</div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-27383262974751673132015-12-22T23:58:00.001+01:002016-02-03T17:18:35.695+01:00Un articolo de LinKiesta sui villaggi e luoghi abbandonati in Italia. <a href="http://www.linkiesta.it/it/article/2015/04/04/nel-paese-delle-citta-fantasma/25352/" target="_blank">Articolo originale</a> <br />
(Nel testo anche il link al blog "Paesi fantasma")<br />
<br />
<br />
<header>
<h1 itemprop="name">
Nel Paese delle città fantasma</h1>
<h2 class="subtitle" itemprop="description">
L’Istat ne ha censite 6mila. Sono posti dove non abita più nessuno e che rischiano di morire ancora</h2>
<div class="bylineList">
<label>di </label>
<a class="byline" href="http://www.linkiesta.it/it/author/lidia-baratta/332/" rel="author">Lidia Baratta</a></div>
</header><span class="datetimeInline">4
Aprile
2015
-
08:45</span><br />
<br />
Quando il 15 ottobre del 2000 il cuore di Teodora Lorenzo,
detta zia Dorina, cessò di battere, il borgo di Roscigno vecchia,
nell’entroterra salernitano, concluse la sua storia secolare. Con zia
Dorina se ne andava l’ultima presenza umana del posto. Roscigno
diventava un <b>paese fantasma</b>.<br />
<div itemprop="articleBody">
<div class="lf lf-transformed">
<div class="lf-col1 lf-size1 lf-text lf-block">
<div class="lf-inner">
Ignorata dai navigatori satellitari e dalla reti dei cellulari, c’è
un’Italia fatta di città, paesi e contrade come Roscigno. Senza più
abitanti, da Nord a Sud restano gli scheletri di un passato perduto tra
bassa natalità, emigrazione e spostamenti verso luoghi dove c’era più
lavoro. Frane, terremoti e alluvioni hanno fatto tutto il resto,
lasciando qua e là <b>mucchi di case vuote</b>. Solo d’estate si vede qualche proprietario che torna dalle città per prendere aria pura e togliere le ragnatele.<br />
Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat, i paesi fantasma in Italia
sono circa un migliaio, se si escludono stazzi e alpeggi, altrimenti si
sale a <b>6mila</b>. In Spagna ce ne sono circa 4.500. Negli
Stati Uniti se ne contano fino a 15mila. «Il termine ghost town è stato
coniato dal giornalista svedese<b> Jan-Olof Bengtsson</b> durante una visita alla città di Varosha a Cipro», spiega <b>Fabio Di Bitonto</b>, geologo e fondatore del sito <b><a href="http://www.paesifantasma.it/" target="_blank">“Paesi fantasma”</a></b>.
«Sono posti che agli occhi del visitatore appaiono come fantasmi,
figure sfocate di quello che erano prima». Tutto in queste cittadine è
rimasto fermo, non si sente nessuna voce e non si incontra più nessuno.<br />
<img alt="Roscigno 0" src="http://i.static.linkiesta.it/blobs/full/c/6/d/2/c6d23257-9f35-4929-9710-ff2e8aad0748.jpg" title="" /><br />
<i>(Roscigno)</i><br />
Il giornalista napoletano<b> Antonio Mocciola</b> nel suo ultimo libro <b><i>Le belle addormentate</i> </b>ha
ritratto 82 delle città fantasma italiane, dall’Alto Adige alla
Sicilia. Dopo dieci anni di viaggi in posti dimenticati da tutti, ha
creato una sorta di guida per luoghi che nelle guide tradizionali non ci
sono più, con tanto di foto e indicazioni per raggiungerli.<br />
Ogni paese nasconde la propria storia, ma ogni zona d’Italia ha i
suoi motivi di spopolamento. I vecchi alpeggi, ad esempio, sono stati
abbandonati con il boom economico del secondo dopoguerra preferendo
condizioni di vita migliori e più comode. Ci sono borghi abbandonati
perché troppo isolati; altri perché distrutti da continui terremoti,
frane e alluvioni; altri ancora spopolati dopo la morte di tutti gli
abitanti. Come Galeria, alle porte di Roma, falcidiata da un’epidemia di
malaria. Ci sono anche ragioni economiche, però: è il caso dei<b> villaggi minerari in Sardegna</b>, abbandonati dopo la chiusura delle attività estrattive, o della singolare storia di <b>Consonno</b>, ex borgo medievale raso al suolo per farne una Walt Disney della Brianza e poi di nuovo abbandonato a sé stesso.<br />
«La causa principale dell’abbandono sono i disastri climatici e gli
eventi naturali», racconta Antonio Mocciola. «Molti paesi sono stati
abbandonati perché diventavano scomodi da vivere». Frane, smottamenti,
terremoti rendevano il territorio inospitale e pericoloso. Lungo l’<b>Appennino</b>,
che è «l’osso dell’Italia», in particolare tra Basilicata, Campania e
Calabria, il terreno friabile ha isolato e continua a isolare intere
comunità. «Fino agli anni Cinquanta le popolazioni hanno resistito»,
spiega Mocciola, «poi <b>le tentazioni delle valli</b>, le
maggiori offerte di lavoro e gli scali ferroviari hanno portato le
persone a spostarsi». Finché non è rimasto più nessuno. E in molti di
questi paesi oggi non potrebbe vivere più nessuno perché pericolanti o
isolati dalle frane di un territorio in grave dissesto idrogeologico. È
il caso di Cavallerizzo di Cerzeto, o di Oriolo, al confine tra Calabria
e Basilicata, che ancora oggi continuano a venire giù come castelli di
sabbia. Altri paesi sono difficilmente raggiungibili, costruiti <b>in cima a una rupe</b> o<b> in fondo a un precipizio</b> per non essere attaccati dai nemici. E che sono ancora inaccessibili ai più, mantenendo fede all’obiettivo iniziale.<br />
L’emblema delle città abbandonate italiane è <b>Civita di Bagnoregio</b>,
appoggiata da secoli su un colle di tufo, chiamata “la città che
muore”. Per ogni frana (frequente), Civita perde un pezzo,
restringendosi ogni giorno di più, cercando di sopravvivere abbarbicata a
quel tufo. A collegarla con il resto del mondo, un ponte sospeso
percorribile solo a piedi. Mai nessuna macchina ha varcato i confini del
paese.<br />
Sono luoghi che appartengono a un’altra geografia. Come <b>Castiglioncello di Firenzuola</b>,
un paese abbandonato da tutti tanto da non essere collocato in nessuna
regione, né in Emilia Romagna né in Toscana. Spesso non si trovano
neanche sulle cartine geografiche, come <b>Buonanotte</b>, che
pure Benedetto Croce aveva descritto come uno dei luoghi più nascosti
d’Abruzzo. Qualcuno di questi paesi è anche in vendita, come l’isola di
Poveglia, nella laguna di Venezia, adibita prima a lazzaretto per gli
appestati e poi a manicomio durante il fascismo.<br />
<img alt="Castiglioncello Firenzuola" src="http://i.static.linkiesta.it/blobs/full/9/8/4/c/984c93a6-0722-43ae-81df-5e02296a60c4.jpg" title="" /><br />
<i>(Castiglioncello di Firenzuola)</i><br />
Molto hanno fatto anche i <b>collegamenti mancanti</b>.
Strade statali asfaltate che aggirano i paesi anziché collegarli, linee
ferroviarie minori tagliate a favore di investimenti sulle linee
principali e più remunerative «hanno causato trasferimenti forzati»,
dice Mocciola. Per raggiungere le città fantasma bisogna percorrere
strade di ciottoli e sassi appuntiti, superare ponti stretti a picco nel
vuoto o arrancare lungo scale ripidissime. Come i <b>“2.886 gradini verso il cielo”</b>
che separano da Savogno, in Valtellina, dove ormai da decenni non vive
più nessuno. «Chi abitava lì era abituato a percorrere tutti questi
gradini», dice Mocciola, «oggi non lo siamo più».<br />
E a volte anziché risanare i vecchi centri storici si è preferito
costruire nuove città non troppo distante, spesso generando veri e
propri scempi. «È quello che è successo a Matera, prima della riscoperta
dei sassi, dove le amministrazioni locali hanno costruito una “finta
Matera” a pochi chilometri dal centro, addirittura cercando di ricreare i
sassi, senza tuttavia riuscirci». O nei paesi terremotati dell’Irpinia,
dove anziché recuperare si è preferito radere al suolo per poi
ricostruire. Lasciando in vita solo qualche chiesa, come ruderi
inventati da tenere a distanza.<br />
Molti dei paesi fantasma vivono spesso accanto alle proprie <b><i>new town</i></b>,
come sorelle maggiori più brutte con le quali da anni non si rivolgono
la parola. Frattura, in Abruzzo, che già nel nome porta la divisione tra
vecchio e nuovo. Sotto, gli abusi edilizi degli anni Settanta e qualche
pacchiano ristorante di pesce, sopra, in alto, il borgo abbandonato
dopo il terremoto che devastò la Marsica nel 1915.<br />
Negli ultimi anni qualche imprenditore straniero si è innamorato delle città fantasma italiane. Uno di questi è lo<b> svedese Daniel Kihlgren</b> che si è messo in testa di far rivivere <b>Santo Stefano di Sessanio</b>, in Abruzzo, acquistandone una parte e realizzando un<b> “albergo diffuso”</b>
nelle case prima abbandonate. E lo stesso progetto è in corso nella
vicina Buonanotte, dove un re di passaggio con corte e scudieri trovò
rifugio in una notte di vento e bufera chiamandola<i> Malanoctem</i>, salvo poi cambiare umore il giorno dopo. E anche il nome.<br />
«Un’altra soluzione per far rivivere questi borghi potrebbe essere quella di aprirli agli<b> immigrati</b>
che hanno bisogno di un posto in cui stare», dice Antonio Mocciola. E
qualche esempio già esiste in Calabria, dove i profughi di ogni parte
del mondo stanno facendo rivivere borghi poco abitati come Riace,
Acquaformosa e Caulonia, da cui i giovani fuggono verso il Nord Italia
alla ricerca di un lavoro. «È già accaduto nel Cinquecento, quando le
popolazioni <i>arbëreshë </i>hanno fatto rifiorire paesi morti, che tutt’oggi mantengono le tradizioni albanesi».<br />
<img alt="Santo Stefano Di Sessanio" src="http://i.static.linkiesta.it/blobs/full/7/5/b/b/75bb60dc-b70c-4ea0-90d7-39750a109484.jpg" title="" /><br />
<i>(Santo Stefano di Sessanio)</i><br />
Alcuni posti, come Galeria, alle porte di Roma, sono diventati la<b> location per giochi di ruolo</b> in costumi medievali. Altri, come Casacca, sono centri di ritrovo ideale per <b>messe nere e riti satanici</b>.
La leggenda vuole che a Casacca un bambino venne murato vivo perché
frutto di un’unione proibita tra un prete e una suora. Una maledizione
che ha perseguitato i suoi abitanti tanto da accelerare l’abbandono del
paese, fomentando così la fama di paese nero e maledetto.<br />
Molti di questi paesi hanno storie romantiche e crudeli che sembrano
uscite dalle pagine di un libro di fantasia. A Reneuzzi, ad esempio, il
giovane Davide Bellomo non sopportava l’idea di perdere la ragazza che
amava. Pazzo d’amore, di rabbia e di solitudine, portò la sua amata nel
bosco e la uccise a colpi di roncola e poi si suicidò con la stessa
arma. Il borgo era troppo piccolo e debole per sopportare quel dolore. I
<b>fantasmi dei due giovani</b> convinsero gli ultimi pochi
abitanti a scendere a valle, lasciando Reneuzzi al suo destino. Era il
1961, l’Italia era in pieno boom economico mentre un paese di spegneva.
Qualche anno dopo Dario Argento avrebbe girato lì una scena di <i>Profondo Rosso</i>.<br />
Tra le pieghe delle Alpi, invece, a<b> Moggessa di qua e Moggessa di là</b>, che non è una filastrocca ma il nome di un paesino friulano, si nasconde il segreto dei santuari <i>à repit</i>,
del respiro, dove le madri portavano i neonati morti subito dopo il
parto per cercare di salvarli. A Triora, in Liguria, torturavano le
streghe accusate della morìa del bestiame. Ca’ Scapini, nell’appennino
parmense, nasconde invece la vergogna di sette bambini forse malati
lasciati a morire nel secondo dopoguerra tra le case abbandonate.<br />
«Sono posti pieni di vita», dice Antonio Mocciola, «perché c’è la
storia, che si sente mentre si passeggia nelle loro strade». Strade dove
i navigatori satellitari non potranno guidarci. «Per trovarli bisogna
usare ancora la parola, fermandosi a chiedere a qualcuno, una mappa o
anche solo l’intuito. Al massimo ti perdi». Le intemperie del tempo e
l’incuria, però, rischiano di risucchiarli per sempre nell’indifferenza
generale. «Serve un piano di recupero e conservazione», dice Mocciola.
«Un piano di riscoperta dell’Italia interna che oggi è solo l’ultima
chance quando si decide dove passare un week end. Eppure le belle
addormentate sono solo a poche curve da casa nostra». </div>
</div>
</div>
</div>
<br />Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-62474967324752676432015-12-21T15:32:00.001+01:002016-02-03T17:07:18.969+01:00Ariston me funai<div dir="ltr">
« Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. </div>
<div dir="ltr">
Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? </div>
<div dir="ltr">
Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia » </div>
<div dir="ltr">
<br />
(Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237)<br />
</div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-48030111851485386162015-11-26T09:17:00.001+01:002016-02-03T17:07:54.355+01:00La deresponsabilizzazione della politica<div dir="ltr">
"Ragazzi cresciuti in Occidente tra risentimento ed esclusione sognano così comunità descritte come paradisiache in cui poter addestrarsi all’insegna di uno spirito comunitario, per poi ritornare a colpire quelle società che per anni li hanno isolati.</div>
<div dir="ltr">
La religione è indubbiamente il collante che permette di costruire reti e di risvegliare dall’apatia quell’insoddisfazione che non ha mai trovato collocazione all’interno di una dialettica politica, se non per scontrarsi con logiche paternalistiche o securitarie.Posizionare il fulcro del dibattito nel campo della religione rischia però di alimentare ulteriormente l’incisività dei predicatori perché distoglie l’attenzione dall’origine del corto circuito: l’assenza di riferimenti e risposte sul piano politico (welfare) che, invece, sterilizzerebbero il terreno su cui oggi investono i canali di Daesh."</div>
<div dir="ltr">
<br /></div>
<div dir="ltr">
<br /></div>
<div dir="ltr">
Da <a href="http://www.glistatigenerali.com/discriminazioni_immigrazione/gli-attentati-affondano-le-radici-nella-morte-della-politica/">http://www.glistatigenerali.com/discriminazioni_immigrazione/gli-attentati-affondano-le-radici-nella-morte-della-politica/</a></div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-44836624231868911622015-11-08T09:53:00.001+01:002016-02-03T17:22:19.552+01:00Sullo storytelling Un interessante punto di vista: <br />
<br />
<a href="http://www.valigiablu.it/contro-lo-storytelling/">http://www.valigiablu.it/contro-lo-storytelling/</a><br />
<br />
E il punto di vista opposto: <br />
<br />
<a href="http://www.valigiablu.it/rinunciare-allo-storytelling-sarebbe-un-regalo-ai-potenti/">http://www.valigiablu.it/rinunciare-allo-storytelling-sarebbe-un-regalo-ai-potenti/</a>Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-3847783709378138282015-11-03T07:59:00.001+01:002016-02-03T17:24:00.986+01:00Fuck hope!http://www.filmsforaction.org/articles/give-up-hope-its-the-best-chance-we-have-to-save-everything-we-love/ <br /><br />
<div class="h1 page-title">
<b><span class="black">Give Up Hope: It's The Best Chance We Have to Save Everything We Love</span></b></div>
<div class="h1 page-title">
<b><span class="black"> </span></b>
</div>
<img class="article-page-article-image no-resize article-image-large-wide" id="C_articleImageBig" src="http://www.filmsforaction.org/img/large-wide/3e10ec1b-8a90-4285-a6de-d80bb62b873c.jpg" />
<div class="cl-portrait" id="C_panelStartText">
</div>
<br />
By <a class="link-dark-red" href="http://www.filmsforaction.org/author/derrick-jensen/">Derrick Jensen</a>
/ <a class="link-dark-red" href="https://orionmagazine.org/article/beyond-hope/">orionmagazine.org </a><br />
<br />
The most common words I hear spoken by any environmentalists anywhere are, <em>We’re fucked.</em><br />
Most of these environmentalists are fighting desperately, using
whatever tools they have — or rather whatever legal tools they have,
which means whatever tools those in power grant them the right to use,
which means whatever tools will be ultimately ineffective — to try to
protect some piece of ground, to try to stop the manufacture or release
of poisons, to try to stop civilized humans from tormenting some group
of plants or animals. Sometimes they’re reduced to trying to protect
just one tree.<br />
Here’s how John Osborn, an extraordinary activist and friend, sums up
his reasons for doing the work: “As things become increasingly chaotic,
I want to make sure some doors remain open. If grizzly bears are still
alive in twenty, thirty, and forty years, they may still be alive in
fifty. If they’re gone in twenty, they’ll be gone forever.”<br />
But no matter what environmentalists do, our best efforts are
insufficient. We’re losing badly, on every front. Those in power are
hell-bent on destroying the planet, and most people don’t care.<br />
Frankly, I don’t have much hope. But I think that’s a good thing.
Hope is what keeps us chained to the system, the conglomerate of people
and ideas and ideals that is causing the destruction of the Earth.<br />
To start, there is the false hope that suddenly somehow the system
may inexplicably change. Or technology will save us. Or the Great
Mother. Or beings from Alpha Centauri. Or Jesus Christ. Or Santa Claus.
All of these false hopes lead to inaction, or at least to
ineffectiveness. One reason my mother stayed with my abusive father was
that there were no battered women’s shelters in the ’50s and ’60s, but
another was her false hope that he would change. False hopes bind us to
unlivable situations, and blind us to real possibilities.<br />
Does anyone really believe that Weyerhaeuser is going to stop
deforesting because we ask nicely? Does anyone really believe that
Monsanto will stop Monsantoing because we ask nicely? If only we get a
Democrat in the White House, things will be okay. If only we pass this
or that piece of legislation, things will be okay. If only we defeat
this or that piece of legislation, things will be okay. Nonsense. Things
will not be okay. They are already not okay, and they’re getting worse.
Rapidly.<br />
But it isn’t only false hopes that keep those who go along enchained.
It is hope itself. Hope, we are told, is our beacon in the dark. It is
our light at the end of a long, dark tunnel. It is the beam of light
that makes its way into our prison cells. It is our reason for
persevering, our protection against despair (which must be avoided at
all costs). How can we continue if we do not have hope?<br />
We’ve all been taught that hope in some future condition — like hope
in some future heaven — is and must be our refuge in current sorrow. I’m
sure you remember the story of Pandora. She was given a tightly sealed
box and was told never to open it. But, being curious, she did, and out
flew plagues, sorrow, and mischief, probably not in that order. Too late
she clamped down the lid. Only one thing remained in the box: hope.
Hope, the story goes, was the only good the casket held among many
evils, and it remains to this day mankind’s sole comfort in misfortune.
No mention here of action being a comfort in misfortune, or of actually
doing something to alleviate or eliminate one’s misfortune.<br />
The more I understand hope, the more I realize that all along it
deserved to be in the box with the plagues, sorrow, and mischief; that
it serves the needs of those in power as surely as belief in a distant
heaven; that hope is really nothing more than a secular way of keeping
us in line.<br />
Hope is, in fact, a curse, a bane. I say this not only because of the
lovely Buddhist saying “Hope and fear chase each other’s tails,” not
only because hope leads us away from the present, away from who and
where we are right now and toward some imaginary future state. I say
this because of what hope is.<br />
More or less all of us yammer on more or less endlessly about hope.
You wouldn’t believe — or maybe you would — how many magazine editors
have asked me to write about the apocalypse, then enjoined me to leave
readers with a sense of hope. But what, precisely, is hope? At a talk I
gave last spring, someone asked me to define it. I turned the question
back on the audience, and here’s the definition we all came up with:
hope is a longing for a future condition over which you have no agency;
it means you are essentially powerless.<br />
I’m not, for example, going to say I hope I eat something tomorrow. I
just will. I don’t hope I take another breath right now, nor that I
finish writing this sentence. I just do them. On the other hand, I do
hope that the next time I get on a plane, it doesn’t crash. To hope for
some result means you have given up any agency concerning it. Many
people say they hope the dominant culture stops destroying the world. By
saying that, they’ve assumed that the destruction will continue, at
least in the short term, and they’ve stepped away from their own ability
to participate in stopping it.<br />
I do not hope coho salmon survive. I will do whatever it takes to
make sure the dominant culture doesn’t drive them extinct. If coho want
to leave us because they don’t like how they’re being treated — and who
could blame them? — I will say goodbye, and I will miss them, but if
they do not want to leave, I will not allow civilization to kill them
off.<br />
When we realize the degree of agency we actually do have, we no
longer have to “hope” at all. We simply do the work. We make sure salmon
survive. We make sure prairie dogs survive. We make sure grizzlies
survive. We do whatever it takes.<br />
When we stop hoping for external assistance, when we stop hoping that
the awful situation we’re in will somehow resolve itself, when we stop
hoping the situation will somehow not get worse, then we are finally
free — truly free — to honestly start working to resolve it. I would say
that when hope dies, action begins.<br />
PEOPLE SOMETIMES ASK ME, “If things are so bad, why don’t you just
kill yourself?” The answer is that life is really, really good. I am a
complex enough being that I can hold in my heart the understanding that
we are really, really fucked, and at the same time that life is really,
really good. I am full of rage, sorrow, joy, love, hate, despair,
happiness, satisfaction, dissatisfaction, and a thousand other feelings.
We are really fucked. Life is still really good.<br />
Many people are afraid to feel despair. They fear that if they allow
themselves to perceive how desperate our situation really is, they must
then be perpetually miserable. They forget that it is possible to feel
many things at once. They also forget that despair is an entirely
appropriate response to a desperate situation. Many people probably also
fear that if they allow themselves to perceive how desperate things
are, they may be forced to do something about it.<br />
Another question people sometimes ask me is, “If things are so bad,
why don’t you just party?” Well, the first answer is that I don’t really
like to party. The second is that I’m already having a great deal of
fun. I love my life. I love life. This is true for most activists I
know. We are doing what we love, fighting for what (and whom) we love.<br />
I have no patience for those who use our desperate situation as an
excuse for inaction. I’ve learned that if you deprive most of these
people of that particular excuse they just find another, then another,
then another. The use of this excuse to justify inaction — the use of
any excuse to justify inaction — reveals nothing more nor less than an
incapacity to love.<br />
At one of my recent talks someone stood up during the Q and A and
announced that the only reason people ever become activists is to feel
better about themselves. Effectiveness really doesn’t matter, he said,
and it’s egotistical to think it does.<br />
I told him I disagreed.<br />
Doesn’t activism make you feel good? he asked.<br />
Of course, I said, but that’s not why I do it. If I only want to feel
good, I can just masturbate. But I want to accomplish something in the
real world.<br />
Why?<br />
Because I’m in love. With salmon, with trees outside my window, with
baby lampreys living in sandy streambottoms, with slender salamanders
crawling through the duff. And if you love, you act to defend your
beloved. Of course results matter to you, but they don’t determine
whether or not you make the effort. You don’t simply hope your beloved
survives and thrives. You do what it takes. If my love doesn’t cause me
to protect those I love, it’s not love.<br />
A WONDERFUL THING happens when you give up on hope, which is that you
realize you never needed it in the first place. You realize that giving
up on hope didn’t kill you. It didn’t even make you less effective. In
fact it made you more effective, because you ceased relying on someone
or something else to solve your problems — you ceased <em>hoping</em>
your problems would somehow get solved through the magical assistance of
God, the Great Mother, the Sierra Club, valiant tree-sitters, brave
salmon, or even the Earth itself — and you just began doing whatever it
takes to solve those problems yourself.<br />
When you give up on hope, something even better happens than it not
killing you, which is that in some sense it does kill you. You die. And
there’s a wonderful thing about being dead, which is that they — those
in power — cannot really touch you anymore. Not through promises, not
through threats, not through violence itself. Once you’re dead in this
way, you can still sing, you can still dance, you can still make love,
you can still fight like hell — you can still live because you are still
alive, more alive in fact than ever before. You come to realize that
when hope died, the you who died with the hope was not you, but was the
you who depended on those who exploit you, the you who believed that
those who exploit you will somehow stop on their own, the you who
believed in the mythologies propagated by those who exploit you in order
to facilitate that exploitation. The socially constructed you died. The
civilized you died. The manufactured, fabricated, stamped, molded you
died. The victim died.<br />
And who is left when that you dies? You are left. Animal you. Naked
you. Vulnerable (and invulnerable) you. Mortal you. Survivor you. The
you who thinks not what the culture taught you to think but what you
think. The you who feels not what the culture taught you to feel but
what you feel. The you who is not who the culture taught you to be but
who you are. The you who can say yes, the you who can say <em>no</em>.
The you who is a part of the land where you live. The you who will fight
(or not) to defend your family. The you who will fight (or not) to
defend those you love. The you who will fight (or not) to defend the
land upon which your life and the lives of those you love depends. The
you whose morality is not based on what you have been taught by the
culture that is killing the planet, killing you, but on your own animal
feelings of love and connection to your family, your friends, your
landbase — not to your family as self-identified civilized beings but as
animals who require a landbase, animals who are being killed by
chemicals, animals who have been formed and deformed to fit the needs of
the culture.<br />
When you give up on hope — when you are dead in this way, and by so
being are really alive — you make yourself no longer vulnerable to the
cooption of rationality and fear that Nazis inflicted on Jews and
others, that abusers like my father inflict on their victims, that the
dominant culture inflicts on all of us. Or is it rather the case that
these exploiters frame physical, social, and emotional circumstances
such that victims perceive themselves as having no choice but to inflict
this cooption on themselves?<br />
But when you give up on hope, this exploiter/victim relationship is
broken. You become like the Jews who participated in the Warsaw Ghetto
Uprising.<br />
When you give up on hope, you turn away from fear.<br />
And when you quit relying on hope, and instead begin to protect the
people, things, and places you love, you become very dangerous indeed to
those in power.<br />
In case you’re wondering, that’s a very good thing.<br />
<br />Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-44587076774719567942015-10-31T08:09:00.001+01:002016-02-03T17:27:08.193+01:00Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvoltiFabrizio De André:
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen="" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/TklpVzeFhgo/0.jpg" frameborder="0" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/TklpVzeFhgo?feature=player_embedded" width="320"></iframe></div>
<br />
E la versione censurata<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen="" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/0ro1ksuJV2A/0.jpg" frameborder="0" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/0ro1ksuJV2A?feature=player_embedded" width="320"></iframe></div>
<br />Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-23689052650644320882015-09-28T15:00:00.001+02:002016-02-03T17:28:24.179+01:00Un tempo avevamo Guccini. Oggi Ligabue<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe width="320" height="266" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/OEI95g1T2kw/0.jpg" src="https://www.youtube.com/embed/OEI95g1T2kw?feature=player_embedded" frameborder="0" allowfullscreen></iframe></div>
<br />Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-45384509376407712272015-06-27T15:01:00.001+02:002016-02-03T17:30:20.871+01:00Smettere di lavorare<a href="http://www.adnkronos.com/sostenibilita/tendenze/2015/06/27/vademecum-per-smettere-lavorare-otto-mosse_W0IgwsfFLaGcsF0SATFJ5H.html">Articolo originale</a><br />
<br />
<h1 class="title">
8 mosse per 'smettere di lavorare', arriva il vademecum</h1>
<h2 class="subtitle">
In un manuale le dritte del blogger Francesco Narmenni</h2>
<div class="category">
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TENDENZE
</div>
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</div>
</div>
<div class="innerFull">
<div class="imgCont left">
<img alt="8 mosse per 'smettere di lavorare', arriva il vademecum" src="http://www.adnkronos.com/rf/image_size_400x300/Pub/AdnKronos/Assets/Immagini/Ritagli/2015/06/canarie_inf-kZXE--1280x960@Produzione.jpg" title="8 mosse per 'smettere di lavorare', arriva il vademecum" width="400" />
<div class="didascalia">
Isole Canarie (Infophoto)<br />
</div>
</div>
<div class="articleDate">
Pubblicato il: 27/06/2015 11:21</div>
Risparmiare, raggiungere l'indipendenza energetica, guadagnare
attraverso le proprie passioni. Così possiamo dire basta a una vita
dedicata a lavorare per consumare. Come spiega <span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Francesco Narmenni <a href="http://www.smetteredilavorare.it/" target="_blank">blogger</a> e autore di 'Smettere di lavorare' (Il Punto d'Incontro)</span>,
"manuale pratico per liberarsi dalla schiavitù del lavoro e vivere
veramente la vita, sfruttando il bene più prezioso che ognuno di noi
possiede: il tempo".<br />
"Una giornata senza lavorare è qualcosa di incredibilmente
emozionante, soprattutto se è un lunedì mattina di mezza estate. Una
settimana senza capi incompetenti che si auto-eleggono a maestri di vita
e ci obbligano a rispettare scadenze impossibili è a dir poco
inebriante, ci si sente così liberi e forti che si vorrebbe urlare al
mondo: 'Sveglia, questa è la vita, ribellatevi!'", dice all'Adnkronos
Narmenni che dopo aver lasciato il suo lavoro vive, tra l'Italia e le
isole Canarie, con 500 euro al mese, guadagnando grazie alla sua
passione per la scrittura e la musica.<br />
Ecco il suo vademecum: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Porsi l'unica domanda</span>.
Siamo talmente abituati a correre senza sosta, lavorare continuamente,
produrre e acquistare, che non ci passa mai per la testa di fermarci un
istante e porci la più basilare delle domande: <span style="font-style: normal; font-weight: bold;">'Sono felice?'</span>",
dice Narmenni. Se "stiamo solamente buttando al vento i nostri giorni,
in un'inutile corsa che non porta da nessuna parte, se non a una
vecchiaia di rimpianti e a una morte che si lascia alle spalle una vita
insipida" allora "possiamo cambiare e trovare un modo per lasciare il
lavoro e la pazzia del consumismo, vivendo finalmente liberi".<br />
Secondo passaggio: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Fare il bilancio familiare</span>.
Per capire quanto ci serve per vivere perché il percorso che ci porterà
a una vita libera non è un salto nel buio ma frutto di un'attenta
pianificazione", spiega. Ecco come: "Cominciamo con l'annotare le spese,
capire quali sono le voci che pesano maggiormente sul nostro bilancio
mensile, per almeno tre mesi, in modo da avere un quadro chiaro di
quanto oggi ci costa vivere e su cosa possiamo tagliare. Alla fine di
questa analisi diamoci un obiettivo: per esempio, se per vivere abbiamo
bisogno di 1200 euro al mese, proviamo per i successivi tre mesi a
vivere con 800, cercando di rinunciare a qualcosa, di tagliare tutto ciò
che è superfluo e attuando ogni strategia possibile per economizzare".<br />
Terzo: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Risparmiare su tutto</span>.
Il risparmio è principalmente una condizione mentale: ogni volta che
desideriamo qualcosa chiediamoci se ci serve veramente, in modo onesto,
senza mentire a noi stessi - dice - Così facendo scopriremo che il 90%
delle volte possiamo rinunciare a ciò che desideriamo, perché si tratta
di sfizi derivanti da bisogni indotti".<br />
Obiettivo: rispettare il tetto di spesa mensile cercando di migliorarlo. "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Ogni
volta che abbiamo bisogno di qualcosa prima valutiamo se possiamo
averla gratis, poi se possiamo prenderla in prestito, barattarla o
acquistarla in condivisione con qualcuno che ha la nostra stessa
esigenza</span>. Solo alla fine decidiamo di mettere mano al portafogli,
cercandola, però, prima usata. Minore è il denaro che ci serve per
vivere, meno dovremo lavorare".<br />
Quarto: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Raggiungere l'indipendenza energetica</span>.
Per non pagare l'energia elettrica occorre installare pannelli solari,
per ottenere acqua calda dobbiamo necessariamente ricorrere al solare
termico o ai sistemi geotermici. Per riscaldarci l'ideale è munirsi di
una stufa e poi tagliare la legna nel bosco. In alternativa possiamo
utilizzare le stufe a pellet - dice - <span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Indispensabile poi tenere un orto</span>,
non è necessario che sia grande perché esistono strategie per
ottimizzare al massimo gli spazi. Contestualmente serve un freezer
capiente dove surgelare la verdura che si produce in estate, come scorta
per l'inverno".<br />
Quinto: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Ottenere un guadagno extra</span>.
Uno dei passaggi fondamentali per vivere senza essere schiavi del
lavoro è ottenere guadagni extra derivanti dalle nostre passioni, in
modo tale da poter abbandonare il classico impiego e vivere facendo
quello che veramente amiamo", spiega.<br />
Sesto: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Investire il denaro</span>".
Per Narmenni, "è di vitale importanza conoscere le basi della finanza,
concetti che sono anche piuttosto semplici se spiegati in modo chiaro,
ma che ci possono salvare dalle banche, dai consulenti finanziari e da
tutti quegli enti che esistono solo perché diamo loro i nostri soldi,
credendo che siano esperti e che possano farli fruttare". Insomma "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">dobbiamo
imparare a far crescere gli interessi sui nostri risparmi, perché
probabilmente non percepiremo la pensione, pertanto abbiamo la necessità
di costruire un piano di sviluppo finanziario solido e autonomo</span>".<br />
Settimo: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Affrontare la solitudine</span>.
Fin da piccoli siamo stati abituati a fare, fare e ancora fare: questo
non ci ha permesso di sviluppare la capacità di 'bastarci', ovvero
rimanere soli a lungo e trovare strade per usare bene il tempo. Se tutti
lavorano ci ritroveremo spesso soli con noi stessi, in questo senso è
importante costruire passioni forti, progetti ambiziosi e traguardi da
raggiungere, in modo tale che il tempo diventi un alleato, non un nemico
da sconfiggere", suggerisce il blogger. Insomma dobbiamo "imparare a
convivere con la solitudine".<br />
Ottavo e ultimo punto: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Prepararsi per la vecchiaia</span>.
Quindi pianificare bene quello che accadrà quando le forze ci
abbandoneranno - chiarisce - Dobbiamo ragionare in termini molto
pratici, ad esempio comprendere come faremo a riscaldarci se non potremo
più tagliare la legna nel bosco e di quanti soldi avremo bisogno per
nutrirci se non potremo più coltivare l'orto. Come accennato, poi, sarà
necessario elaborare una strategia per costruire una rendita mensile del
tutto simile a una pensione, in modo tale da trascorrere in
tranquillità gli ultimi anni della nostra esistenza". Per l'autore del
libro, "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">un'ottima strategia, che è già realtà per migliaia di persone, è quella di trascorrere la vecchiaia nelle isole tropicali</span>, dove si può acquistare casa con pochi soldi e dove la vita ha un costo molto contenuto".<br />
Questa la scelta di vita di Narmenni, raccontata anche sul suo blog
smetteredilavorare.it, che per ciascuna delle molte inevitabili domande
ha pensato a una risposta: "<span style="font-style: normal; font-weight: bold;">Per ogni tappa qui proposta ho creato una strategia concreta e una soluzione praticabile </span>da
persone come me, comuni lavoratori con uno stipendio normale, che sono
stanchi di vivere una vita al servizio del lavoro e del consumo".<br />
</div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-76499314754988386732015-06-21T09:36:00.001+02:002016-02-03T17:31:24.433+01:00Over thinking<div dir="ltr">
</div>
<div dir="ltr">
<a href="http://www.yourtango.com/2015275808/12-things-only-over-thinkers-understand">http://www.yourtango.com/2015275808/12-things-only-over-thinkers-understand</a></div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-5707710145294494362015-06-20T10:41:00.001+02:002016-02-03T17:33:10.242+01:00La mia generazione di sfigati <a href="http://www.linkiesta.it/generazione-anni-70-senza-potere">Articolo originale</a><br />
<br />
<header>
<h1 itemprop="name">
I figli degli anni ’70 potrebbero vincere, ma non sanno lottare</h1>
<h2 class="subtitle" itemprop="description">
L’intervento</h2>
<div class="bylineList">
<label>di </label>
<a class="byline" href="http://www.linkiesta.it/it/author/riccardo-puglisi/479/" rel="author">Riccardo Puglisi</a>
</div>
</header><br /><div class="articleDetailInfo">
<div class="articleDetailInfoBlock">
<span class="datetimeInline">
15
Giugno
2015
-
08:30</span> </div>
<div class="articleDetailInfoBlock">
</div>
<div class="articleDetailInfoBlock">
“Corri ragazzo laggiù</div>
<div class="articleDetailInfoBlock">
Vola tra lampi di blu</div>
<div class="articleDetailInfoBlock">
Corri in aiuto di tutta la gente</div>
<div class="articleDetailInfoBlock">
Dell’umanità”</div>
</div>
<div itemprop="articleBody">
<div class="lf lf-transformed">
<div class="lf-col1 lf-size1 lf-text lf-block">
<div class="lf-inner">
<blockquote>
</blockquote>
A tradimento, questo articolo comincia con un test: quanti di voi
riescono a leggere i versi riportati sopra senza mettersi a cantare?
Molto probabilmente molti degli italiani che sono <strong>nati negli anni ’70</strong>, cioè che hanno oggi tra i 37 e i 46 anni, non ce la faranno mai a non canticchiare.<br />
<blockquote>
A oggi i nati negli anni ’70 sono la generazione più numerosa d’Italia<br />
</blockquote>
Partiamo da un po’ di numeri: ad oggi i nati negli anni ’70 <strong>sono la generazione più numerosa d’Italia</strong>. Secondo i dati Istat, i nati tra il 1970 e il 1979 al primo gennaio 2014 erano <strong>9,47 milioni</strong>:
praticamente un residente in Italia su 6. La generazione dei nati negli
anni ’60 è leggermente più piccola (9,31 milioni), mentre i nati negli
anni ’50 sono 7,35 milioni. I nati negli anni ’40 sono 6,32 milioni,
mentre i nati prima degli anni ’40 sono 5,92 milioni. Dal lato di quelli
più giovani, i nati negli anni ’80 sono 7,15 milioni, mentre i nati
negli anni ’90 sono 6 milioni. Infine i nati nel nuovo millennio sono
9,59 milioni, ma naturalmente includono un decennio e mezzo. A mettere i
dati in un grafico, vi accorgereste di una forma somigliante a una
collina: un paese in cui le persone di mezza età rappresentano il gruppo
più numeroso, i giovani sono la generazione più piccola, mentre gli
anziani si trovano in una posizione intermedia.<br />
Torniamo al quiz di partenza: per chi non lo avesse capito, i versi scritti sopra sono l’inizio della sigla di<strong> Jeeg Robot d’Acciaio,</strong>
uno dei più celebri cartoni animati giapponesi, cartoni animati che
hanno avuto un clamoroso successo in Italia tra la fine degli anni ’70 e
gli anni ’80. Il capostipite fu Goldrake, trasmesso per la prima volta
nel 1978 da quella che allora si chiamava Rete 2 (e che oggi si chiama
Rai 2), mentre Jeeg fu trasmesso per la prima volta nell’anno
successivo.<br />
Sia nel caso di Goldrake che nel caso di Jeeg milioni di italiani
possono vivere facilmente un’esperienza proustiana di ritorno al tempo
perduto: basta sentire qualche nota delle due sigle per ritrovare il
tempo passato: una piccola madeleine televisiva.<br />
In ogni caso, al ricordo non può che associarsi la riflessione: quelli che sono nati negli anni ’70 si sentono ora un po’ una <strong>generazione nel mezzo,</strong>
anche se è difficile definirli “persone di mezza età”. Giovani?
Vecchi? Sicuramente nel mezzo, incuneati tra le due generazioni dei
genitori e dei figli che cominciamo ad avere, oppure abbiamo da un
pezzo.<br />
È difficile oggi ricordarsi con precisione che cosa si provasse
allora nel guardare gli episodi di Jeeg o di Goldrake, di Daitarn 3 o di
Capitan Harlock (senza dimenticare cartoni giapponesi più “femminili”
come Heidi, Candy Candy, Hello Spank o Lady Oscar). Un dato di fatto è
che questi eroi e questi robot passavano il tempo a combattere contro
nemici provenienti dal cielo o da sottoterra, e che nel farlo
sopportavano <strong>patimenti e sofferenze</strong>. In termini
comparativi si tratta senz’altro di un mondo molto più duro rispetto al
mondo tenero ed edulcorato dei concorrenti americani, cioè i cartoni
della Disney.<br />
<blockquote>
Nei cartoni animati giapponesi con protagonisti i robot
un tema cruciale sottostante è quello della lotta generazionale tra i
giapponesi nati negli anni ’40 e ’50 in Giappone e i loro genitori,
usciti sconfitti e umiliati dopo la Seconda Guerra Mondiale<br />
</blockquote>
Come efficacemente raccontato da Marco Pellitteri nel suo saggio<a href="https://books.google.it/books/about/Il_drago_e_la_saetta_Modelli_strategie_e.html?id=nb01RtI2Z1sC&hl=it" target="_blank"><em> Il Drago e la Saetta</em></a>,
nei cartoni animati mecha (cioè con protagonisti i robot) nati sulla
carta dei fumetti negli anni ’70 e poi trasposti in forma televisiva, un
tema cruciale sottostante è quello della lotta generazionale tra i
giapponesi nati negli anni ’40 e ’50 in Giappone e i loro genitori,
usciti sconfitti e umiliati dopo la <strong>Seconda Guerra Mondiale</strong>.
I robot sono costruzioni meccaniche per molti aspetti simili a samurai
che prendono vita nel momento in cui l’eroe li comanda dall’interno; nel
caso di Jeeg l’integrazione è ancora maggiore: il protagonista Hiroshi
si trasforma nella <strong>testa del robot</strong>, il cui corpo si
completa con il famoso “lancio dei componenti”. L’eroe in questi cartoni
animati è sempre un giovane, tipicamente aiutato da uno scienziato
anziano, che lotta per salvare la Terra da <strong>un’invasione di nemici malvagi</strong>:
fuor di metafora, i giovani giapponesi – aiutati dalla tecnologia -
risollevano insieme un paese che la generazione precedente ha portato
alla rovina attraverso la guerra e il nazionalismo.<br />
<br />
Come analizzato da Marco Maurizi, esiste <a href="http://www.amnesiavivace.it/sommario/rivista/brani/pezzo.asp?id=26" target="_blank">un’ambiguità di fondo nei robot giapponesi,</a> per cui non è chiaro se <strong>il nemico sia la generazione precedente</strong> che ha voluto combattere e ha perso una guerra, <strong>oppure l’Occidente</strong> che ha vinto la guerra sia militarmente che culturalmente.<br />
Tornando alla nostra esperienza dei robot giapponesi, un moto
spontaneo è quello di ascoltare queste sigle con lo spirito di una
generazione che deve <strong>lottare e soffrire</strong> per ottenere
spazio dalla generazione precedente. Di quale spazio sto parlando? Qui
si è gente concreta: mi riferisco esplicitamente a <strong>denaro e potere</strong>, cioè a risorse economiche e potere politico, che sono tuttora appannaggio delle generazioni precedenti.<br />
La figura che vedete sotto è tratta dall’indagine annuale della Banca
d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane. Guardate l’orripilante
divaricazione nei redditi tra chi ha meno di 44 anni e chi ne ha più di
55: altro che brividi proustiani.<br />
<img alt="Reddito Netto Classi Eta" src="http://i.static.linkiesta.it/blobs/variants/2/3/c/c/23cc1210-17d6-4364-86a7-0d5fe682b527_medium_p.jpg" title="" /><br />
Avete letto Piketty e siete propensi a dare più importanza alla
ricchezza che al reddito? Eccovi accontentati, con lo stesso grafico
diviso per generazione ma questa volta riferito alla ricchezza: per chi
ha meno di meno 44 anni il tracollo rispetto a chi ha più di 55 anni è
ancora peggiore, ed è iniziato prima.<br />
<img alt="Ricchezza Netta Classi Eta" src="http://i.static.linkiesta.it/blobs/variants/d/6/3/a/d63ad497-3c60-40cb-97a3-97347de49c90_medium_p.jpg" title="" /><br />
Finora abbiamo parlato di divisione generazionale della torta del
reddito e della ricchezza. Che dire invece della sfera politica? Qui
l’obiezione legittima è che leader come <strong>Matteo Renzi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini</strong> sono tutti nati negli anni ’70 e sono ai vertici delle rispettive forze politiche. Non solo: un leader emergente come <strong>Luigi Di Maio</strong>
del MoVimento 5 Stelle è persino nato negli anni ’80. Possiamo dunque
concludere che – in maniera molto poco marxiana - il ricambio
generazionale sia accaduto prima in politica che in economia?<br />
<blockquote>
Quali politiche a favore delle generazioni nate a partire
dagli anni ’70 avrebbe attuato il governo attuale, capitanato da un
Matteo Renzi nato nel 1975? Il bilancio è desolante<br />
</blockquote>
Per ora non è il caso di essere troppo ottimisti sulla questione, per due ordini di ragioni. Il primo motivo va sotto il nome di<em> tokenism</em>:
questo termine è stato coniato negli Stati Uniti per riferirsi alla
falsa impressione che il divario politico tra bianchi e afroamericani
sia significativamente diminuito, così come dimostrato dalla presenza di
alcune figure apicali come <strong>Colin Powell, Condoleeza Rice </strong>e da ultimo <strong>Barack Obama</strong>,
che sono invece da considerarsi concessioni simboliche, di facciata. Lo
stesso ragionamento può essere applicato al caso italiano, con
riferimento alla ripartizione del potere politico tra generazioni: la
maggior parte dei politici non appartiene alla generazione Jeeg e a
quelle successive.<br />
Il secondo motivo è di carattere sostanziale: quali politiche a
favore delle generazioni nate a partire dagli anni ’70 avrebbe attuato
il governo attuale, capitanato da un Matteo Renzi nato nel 1975? Il
bilancio è desolante: di fatto la principale riforma a favore delle
giovani generazioni negli ultimi dieci anni è stata attuata non già dal
governo attuale, ma dal governo presieduto da Monti, non esattamente un
giovinotto: alla faccia dei succitati Matteo Salvini e Giorgia Meloni,
si tratta della <strong>riforma Fornero delle pensioni</strong>.<br />
<blockquote>
Si rendono conto Renzi, Meloni, Di Maio e Salvini del
fatto di agire contro gli interessi dei loro coetanei e delle
generazioni successive?<br />
</blockquote>
Sotto il profilo della ripartizione delle risorse la migliore scelta
da parte del governo attuale è stata quella di riconfermare di fatto gli
effetti di breve termine della riforma Fornero dopo l’irresponsabile
decisione della Corte Costituzionale sul blocco degli scatti per
inflazione. Dall’altro lato, il governo Renzi sembra vagamente tentato
dall’idea di smantellare la riforma Fornero nei suoi aspetti di
medio-lungo termine, cioè <strong>reintroducendo prepensionamenti</strong>.
Bisogna guardare la verità in faccia: ogni aggravio della spesa
pensionistica è un colpo ulteriore ai redditi della generazione Jeeg e
delle generazioni successive. Si rendono conto Renzi, Meloni, Di Maio e
Salvini del fatto di agire contro gli interessi dei loro coetanei e
delle generazioni successive?<br />
<br />
Dal punto di vista politico e culturale bisogna essere sinceri:
la generazione degli anni ’70 non sembra avere una coscienza di se
stessa, nonostante alcuni suoi rappresentanti abbiano raggiunto
ragguardevoli posizioni di potere. Forse la nostra generazione
assomiglia a Fabrizio Salina del Gattopardo, nella sua incapacità di
farsi illudere dall’ideologia e dai suoi canti di battaglia per
compattarsi e chiedere spazio: sotto questo profilo dovremmo andare a
lezione dai sessantottini, oggi ben pasciuti gerontocrati.<br />
A differenza dei sessantottini noi non abbiamo –per fortuna!- canzoni come Contessa: noi <strong>abbiamo le sigle dei cartoni animati giapponesi</strong>. Non è tanto, ma non è nemmeno poco, è un punto di partenza: un punto di partenza dolente, ritmato e orgoglioso.<br />
Siamo pronti a correre tra i lampi di blu?<br />
</div>
</div>
</div>
</div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-51417638028958878492015-05-29T10:33:00.001+02:002016-02-04T10:56:33.718+01:00The Economist on The weaker sex<div dir="ltr">
As usual the Economist is very good at analysis and stupidly conservative at proposing solutions (that could never work because their solution is NEVER to address a problem but always to reload it on the shoulders of the weakest).<br />
It remains very interesting to read their analyses. </div>
<div dir="ltr">
<a href="http://www.economist.com/news/leaders/21652323-blue-collar-men-rich-countries-are-trouble-they-must-learn-adapt-weaker-sex?fsrc=scn/fb/tl/img/st/may30">http://www.economist.com/news/leaders/21652323-blue-collar-men-rich-countries-are-trouble-they-must-learn-adapt-weaker-sex?fsrc=scn/fb/tl/img/st/may30 </a></div>
<div dir="ltr">
<br /></div>
<div dir="ltr">
And a reportage on the evolving work market, less and less favourable to men. <br /><a href="http://www.economist.com/news/essays/21649050-badly-educated-men-rich-countries-have-not-adapted-well-trade-technology-or-feminism">http://www.economist.com/news/essays/21649050-badly-educated-men-rich-countries-have-not-adapted-well-trade-technology-or-feminism</a></div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-32730282061716645702015-05-12T10:17:00.001+02:002016-02-04T11:04:01.965+01:00Global warming is the symptom, but the illness is capitalism. <a href="http://lecturassumergidas.com/2015/04/29/jorge-riechmann-consumimos-el-planeta-como-si-no-hubiera-un-manana/" rel="nofollow" target="_blank">Original interview </a><br />
<br />
and a <a href="http://www.nuevatribuna.es/articulo/cultura---ocio/sintoma-llama-calentamiento-climatico-enfermedad-llama-capitalismo/20150501124804115361.html" rel="nofollow" target="_blank">reduced version</a> <br />
<br />
both in Spanish. <br />
<header class="entry-header">
<h1 class="entry-title">
Jorge Riechmann: “Consumimos el planeta como si no hubiera un mañana”</h1>
</header>
<h2 style="text-align: center;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9696 size-large" height="405" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02656.jpg?w=610&h=405" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="610" /></h2>
<h2 style="text-align: center;">
<em><strong>Por Emma Rodríguez © 2015 /</strong></em></h2>
<div style="text-align: justify;">
Denomina Jorge Riechmann al siglo XXI como <strong>“el siglo de la gran prueba” o como “la era de los límites”</strong>. Nos dice que “estamos consumiendo el planeta como si no hubiera un mañana”; que <strong>“lo que hace falta son transformaciones estructurales profundas, casi revolucionarias” </strong>y que ya no podemos confiar en que será la generación de nuestros nietos la que las lleve a cabo, porque <strong>estamos en “tiempo de descuento”</strong>. Todo esto nos lo cuenta en <em><strong>Autoconstrucción,</strong></em>
uno de esos libros que funcionan como un aldabonazo en las conciencias,
que sacuden el letargo y conducen a plantear la gran pregunta: <strong>¿Estamos aún a tiempo de salvar el planeta?</strong> Es un interrogante que el propio autor abre una y otra vez en en el recorrido de un ensayo esclarecedor que <strong>nos invita a tomar conciencia de la urgencia de la lucha ecológica</strong>,
de la necesidad de avanzar lo más suavemente que se pueda hacia
sociedades de la sobriedad, de la contención, de otro tipo de
realizaciones y plenitudes no asociadas a la adquisición constante de
pertenencias, de propiedades, de productos de consumo.</div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>Profesor titular de Filosofía Moral en la Universidad Autónoma de Madrid</strong>, traductor, <strong>poeta</strong>,
ensayista, miembro de Ecologistas en Acción y desde hace poco del
Consejo Ciudadano de Podemos, Riechmann va desgranando un buen puñado de
verdades, de reflexiones incómodas, pero absolutamente necesarias, en
esta <em>Autoconstrucción, </em>subtitulada<em><strong> La transformación cultural que necesitamos</strong>, </em>que<em> </em>nos
anima a pensarlo todo de otra manera, a encontrar nuevas palabras,
nuevos vínculos, nuevas imágenes para situarnos frente a un presente de
resquebrajamientos y de oportunidades de cambio. “<em>Jamás se había
hablado tanto sobre las desigualdades sociales, jamás se había hecho tan
poco para reducirlas… Nunca se había hablado tanto los daños
ecológicos, y nunca se ha hecho tan poco para delimitarlos</em>”, leemos muy al comienzo de un libro que traza un magnífico diagnóstico de dónde estamos y hacia dónde podemos dirigirnos.</div>
<div style="text-align: justify;">
El autor es consciente de que <strong>el pesimismo no está de moda</strong>, de que el continuo estímulo del pensamiento positivo se puede llegar a convertir en una conveniente cortina de humo, de que <strong>a muchos se les llena la boca con la palabra “buenismo”</strong> <strong>para definir cualquier propósito de solidaridad, de compasión, de cooperación, de igualdad</strong>,
de que los ecologistas son vistos en muchas ocasiones como
catastrofistas y agoreros dispuestos en todo momento a chafar una fiesta
en la que muchos siguen pasándolo bien, a costa de mayorías cada vez
más empobrecidas e indefensas. Todo parece estar en contra, pero no cabe
la resignación, la no resistencia. “<em>Hay esencialmente dos opciones
político-morales. La de quienes desean un mundo de amos y esclavos, por
una parte; y la de quienes luchan por un mundo de iguales. Al poder del
dinero y de las armas, el segundo grupo solamente puede oponer la fuerza
de la organización</em>”, abre Riechmann un cauce de futuro.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9700 size-large" height="380" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02624.jpg?w=610&h=380" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="610" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>No deja de haber autocrítica en el trayecto</strong>
y tampoco falta el realismo, grandes dosis de realismo que parten de la
constatación de las dificultades, de los enormes retos. Y, por
supuesto, se revelan hechos y se ofrecen datos, hechos y datos que
hablan por sí solos y que, nos guste o no, indican que el rumbo no es el
adecuado. Así, <strong>el cambio climático que nos conduce a un mundo cuatro grados centígrados más cálido</strong>,
según predicciones muy optimistas, pero ante el que tantos siguen
quitando importancia en nombre de intereses empresariales, intereses que
obstaculizan la necesaria disminución de los gases de efecto
invernadero. Así, <strong>la escasez de fuentes de energía fósiles</strong>, que lleva a la agonía de un modelo que se alarga artificialmente, vía <strong>prácticas como el fracking</strong>, en vez de apostar por invertir en el camino de las renovables.</div>
<blockquote>
<div style="padding-left: 30px; text-align: justify;">
<strong><em>“Hay
esencialmente dos opciones político-morales. La de quienes desean un
mundo de amos y esclavos, por una parte; y la de quienes luchan por un
mundo de iguales. Al poder del dinero y de las armas, el segundo grupo
solamente puede oponer la fuerza de la organización</em>”, </strong><strong>escribe Riechmann en<em> Autoconstrucción</em>.</strong></div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
Mientras las capas de hielo ártico
desaparecen, mientras el proceso de la fotosíntesis se está viendo
afectado en zonas con altos niveles de contaminación, <strong>mientras las abejas se ven amenazadas</strong>,
mientras… seguimos pensando que habrá tiempo, que la técnica será capaz
de solucionarlo; que llegará un día en que volveremos a la normalidad
de un modo de vida que nos parece el mejor posible. <strong>¿Cómo
convencernos, habitantes del Primer Mundo del siglo XXI, de que ya no
volveremos a la normalidad de antes de la crisis, de antes de la amenaza
ecológica; cómo convencernos de que es necesario cambiar la orientación</strong> y las estructuras del sistema para seguir viviendo bien, e incluso mejor, pero con otros parámetros?</div>
<div style="text-align: justify;">
He aquí las cuestiones que plantea Jorge Riechmann en <em>Autoconstrucción (</em>Ediciones<em> </em>Catarata<em>).</em> Son
muchas las salidas que ofrece este libro, pero lo esencial es su
llamamiento a un cambio de conciencia, de valores, de usos y costumbres.
“<em>La economía es una construcción humana. Las leyes económicas no
son como la ley de la gravedad. Pueden ser transformadas (…) Pero para
ello la gente ha de cambiar de conducta</em>”, se utiliza como arranque
de un capítulo este párrafo-lema extraído del informe de un centro de
estudios económicos. Hay en el ensayo reflexiones sobre <strong>el papel cada vez más activo de los consumidores</strong> –consumidores rebeldes–; sobre la cultura como base de la comprensión de los cambios; sobre <strong>los movimientos sociales que deben convertirse en la base de las nuevas sociedades</strong>… “<em>Hemos de vivir de otra manera</em>”, es la frase que cierra el libro. Pero aquí, lejos de cerrar, empezamos con la conversación.</div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– ¿En qué punto se encuentra el movimiento ecologista hoy a nivel global? ¿Cuáles son sus expectativas?</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Si lo analizamos con perspectiva, el
movimiento ecologista moderno, como tal, es muy reciente. Surge en los
años 60 del siglo XX, aunque el pensamiento ecológico arranca de más
atrás, de antecedentes tan ilustres como <strong>Thoreau</strong>, a quien releemos con mucho interés, o, antes, <strong>Alexander von Humboldt</strong>,
que tanto contribuye en la creación de la ciencia ecológica, de la
biología de los ecosistemas. Ahí están las raíces, pero hay que dar un
salto hasta llegar, en 1962, a un hito importantísimo, una obra clásica
de la conciencia ecológica, <strong><em>La primavera silenciosa</em>, de Rachel Carson</strong>.
En ese año se empiezan a poner en marcha dinámicas sociales, políticas,
intelectuales, culturales, que conducen a algunas sociedades, dentro de
procesos muy contradictorios, a emprender un nuevo aprendizaje de los
modos de vida. Y ya en 1972 nos encontramos con otra aportación
esencial, el estudio <em><strong>Los límites del crecimiento</strong></em>, el <strong>primer informe del Club de Roma</strong>,
que pone en marcha un debate de alcance mundial a partir del cual ya
empiezan a circular los lemas básicos, las consignas del ecologismo
sobre la necesidad de conformar una conciencia de especie en las
singulares condiciones históricas que nos ha tocado vivir. Ese proceso
de aprendizaje social se rompe a finales de los años 70 y comienzos de
los 80, con la irrupción de la fase última de la historia del
capitalismo, el capitalismo neoliberal financiarizado. A esos decenios, a
esa etapa en la que aún estamos inmersos, yo la denomino a veces <strong>la era de la denegación</strong>, porque hay fuerzas muy poderosas que, lejos de impulsar el aprendizaje, están trabajando en sentido contrario.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9702 size-large" height="405" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02634.jpg?w=610&h=405" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="610" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– Denegar es un verbo que
utilizamos muy poco y que explica muy bien lo que está sucediendo. A los
pueblos cada vez se les niega más lo que desean. Las democracias se
están vaciando cada vez más de sentido.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Denegar es un término que usan los
psicólogos y psicoanalistas para referirse a ese fenómeno que no
consiste sólo en ignorar algo sino en hacer un esfuerzo por no ver lo
que tenemos delante de los ojos. Yo creo que ha habido, que hay mucho de
eso, en la cultura dominante durante los tres últimos decenios. Es
indudable que hay un permanente negacionismo si hablamos de fenómenos
como el calentamiento climático, del mismo modo que lo hubo
anteriormente con respecto al cáncer ocasionado por el tabaco. Y es
indudable la eficacia de los esfuerzos organizados por el sector
empresarial para expandir toda la tinta de calamar y toda la
desinformación posible con el fin de impedir que se tomen las decisiones
correctas. Ahora mismo, más allá de circunstancias concretas,
tendríamos que referirnos a un negacionismo mucho más vasto que se
refiere a todo lo que tiene que ver con <strong>los límites al crecimiento</strong>,
y eso es mortal porque nuestra situación, nos pongamos como nos
pongamos, es la que es. Las leyes de la naturaleza, de la física, de la
química, de la dinámica de los seres vivos, son las que son, no vamos a
cambiarlas, por grandes que sean nuestras ilusiones a ese respecto, y el
conflicto esencial que se plantea, que estaba en ese debate de los años
60 y 70, es el <strong>choque de las sociedades industriales contra los límites biofísicos del planeta</strong>,
que se ha ido agravando y agudizando cada vez más. Si usamos la
herramienta efectiva de la huella ecológica, hacia 1980, fue cuando ésta
superó la biocapacidad del planeta para seguir creciendo después. Según
los investigadores, ahora <strong>estamos en el 150% de la capacidad del planeta</strong>.
Y esa situación no durará demasiado, porque estamos, como se dice a
veces, consumiendo el capital, no los intereses, empleando en este caso
la habitual metáfora financiera. Estamos sobreexplotando los recursos y
las capacidades de absorción de contaminación, de una forma que es
insostenible. Parece que consumimos el planeta como si no hubiera un
mañana.</div>
<blockquote>
<div style="padding-left: 30px; text-align: justify;">
<em><strong>Denegar es
un término que usan los psicólogos y psicoanalistas para referirse a ese
fenómeno que no consiste sólo en ignorar algo sino en hacer un esfuerzo
por no ver lo que tenemos delante de los ojos. Yo creo que ha habido,
que hay mucho de eso, en la cultura dominante durante los tres últimos
decenios. Es indudable que hay un permanente negacionismo si hablamos de
fenómenos como el calentamiento climático, del mismo modo que lo hubo
anteriormente con respecto al cáncer ocasionado por el tabaco.</strong></em></div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– “El síntoma se llama
calentamiento climático, pero la enfermedad se llama capitalismo”. Así
se titula un epígrafe del ensayo donde se hace referencia al rotundo
fracaso de la cumbre de Copenhague en 2009, una cumbre donde se aspiraba
a lograr un acuerdo global de reducción de emisiones de gases de efecto
invernadero, que sustituyese al Protocolo de Kioto. Ahora estamos a la
espera de una nueva reunión en París en diciembre de este 2015. Parece
que los límites son absolutamente incompatibles con el capitalismo
salvaje.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Así es. <strong>Hacia 1980 fue cuando ganaron las elecciones generales Margaret Thatcher en Gran Bretaña y posteriormente Ronald Reagan en EE.UU</strong>. Ahí tenemos que fijar el <strong>desplazamiento del mundo hacia una derecha conservadora</strong>,
que ha sido hegemónica desde entonces, y que ha resultado letal en lo
que se refiere a las cuestiones económico sociales. Hacia 1980 se puso
en marcha el proceso de desregulación financiera y comercial. Hasta
entonces, las economías, el crecimiento del capital y de los activos
financieros iban acompasados al crecimiento de lo que llamamos economía
real, pero a partir de ahí se rompió el equilibrio, todo se abrió en
forma de tijera y lo financiero comenzó a crecer de manera metastásica y
a dominarlo todo. Es ahí donde nos encontramos ahora. Esa es la
situación. Si no somos capaces de romper con esa clase de políticas y
con las culturas que las acompañan, lo tenemos realmente difícil.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9706 size-large" height="405" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02642.jpg?w=610&h=405" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="610" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– Mientras leía el libro pensaba
que la educación es básica para la toma de conciencia. Aludes a la
importancia que en su día tuvo en España la Institución Libre de
Enseñanza, a finales del XIX y principios del XX, en la redefinición de
la relación entre sociedad y naturaleza, así como al naturismo
anarquista por el lado obrero. Pero hoy, ¿cómo hacer entrar la ecología
en los colegios?</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Por supuesto que <strong>tendría que ser la educación una de las vías naturales para difundir la conciencia ecológica</strong>,
pero aquí, nuevamente, nos topamos con lo mismo: la dinámica social en
la que estamos, lejos de educarnos, de construirnos, para hacernos ver
la verdad del mundo en el que vivimos, va en la dirección contraria.
Podríamos decir que es contra educativa en muchos sentidos. Por eso no
es tan fácil de llevar a cabo algo que parece tan simple. Sin ir más
lejos, puedo decirte que yo formo parte de la comisión de educación y
participación de <strong>Ecologistas en Acción</strong> en Madrid y que,
justamente, una de nuestras tareas es hacer avanzar estos
planteamientos en el terreno educativo. Uno de los trabajos más fecundos
del colectivo fue, hace ya unos años, examinar lo que se podría llamar <strong>el currículum oculto de los libros de texto</strong>.
Si uno se dedica a ver con cierto detalle cómo están escritos los
manuales de consulta de ciencias naturales, de ciencias sociales, que es
donde tendrían que entrar esta clase de enseñanzas, lo que encuentra,
en muchos casos, es prácticamente todo lo contrario: <strong>más desinformación que información, puntos de vista adversos</strong>
al verdadero aprendizaje de cuidar, de vivir de verdad en esta tierra.
En esa dinámica en la que estamos ahora mismo, nos encontramos con
comerciales de los bancos que van a los colegios a enseñar educación
financiera y se ve como normal porque esa es la cultura dominante en la
sociedad. A la contra, parece que lo que los ecologistas decimos no
quiere ser oído porque se trata de una realidad incómoda, porque
hacernos cargo de donde estamos realmente nos obligaría a vivir de otra
manera, a organizar casi todo de una forma diferente. Una y otra vez,
insisto, <strong>chocamos de manera muy inmediata, muy frontal, con intereses poderosísimos</strong>.
Pero no quiero instalarme en la queja permanente. Pese a toda esa
resistencia, pese a tantos obstáculos, hacemos lo que podemos. Yo soy
profesor en la universidad y hablo de todo esto a mis alumnos
universitarios, y, además, acabo yendo, por lo menos tres o cuatro veces
al año, a hablar con escolares y con bachilleres; hay otros compañeros y
compañeras que lo hacen con más asiduidad. Pero se llega a donde se
llega. Ecologistas en Acción, por ejemplo, es una asociación
participativa que tiene aproximadamente unos mil afiliados en Madrid,
gente que paga una cuota y que puede hacer una pequeña tarea de vez en
cuando. Si pensamos que en una comunidad autónoma como la de Madrid hay
seis millones de personas, es una cifra muy baja. Y <strong>los activistas no somos más de 60 personas, apenas 10 dedicados a la comisión de educación</strong>.
Ecologistas en Acción se autofinancia. Los recursos con los que
contamos son las cuotas de los afiliados. Ha habido alguna vez algún
programa concertado, pero las administraciones, especialmente en esta
comunidad autónoma y con el gobierno que hay ahora mismo, no sólo son no
cooperativas, sino absolutamente hostiles.</div>
<blockquote>
<div style="padding-left: 30px; text-align: justify;">
<em><strong>En la
dinámica en la que estamos ahora mismo, nos encontramos con comerciales
de los bancos que van a los colegios a enseñar educación financiera y se
ve como normal porque esa es la cultura dominante en la sociedad. A la
contra, parece que lo que los ecologistas decimos no quiere ser oído
porque se trata de una realidad incómoda, porque hacernos cargo de donde
estamos realmente nos obligaría a vivir de otra manera, a organizar
casi todo de una forma diferente. </strong></em></div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– ¿Se ha fracasado a nivel
general, no sólo en España, en la comunicación, en la difusión? Se habla
mucho de ecología, en ciertos ámbitos está muy de moda, se ha
superficializado incluso, pero la verdadera conciencia ecológica no ha
llegado a la gente.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Quiero hacer hincapié en un aspecto que
me parece muy importante y que nos lleva a la pregunta anterior, a la
educación. El título del libro, <i>Autoconstrucción</i>, que en griego podríamos decir <strong>paideia</strong>,
educación en un sentido amplio, es una llamada a que no entendamos la
educación sólo como el aprendizaje que se imparte en las escuelas, los
institutos y luego en las universidades. Los contextos educativos son
los contextos sociales generales, y yo creo que la manera de
autoconstrucción, de autoformación, de educación, de paideia más
importante para todo lo que estamos hablando, sin menospreciar la
educación ambiental en sentido estricto y formal, es la que se da en <strong>los movimientos sociales</strong>.
Es ahí donde la gente se autoorganiza para actuar y, mientras lo hace,
aprende en el recorrido. Lo que sucede es que, mientras en los años 70 y
80 esa clase de procesos iban hacia adelante, pese a todas las
dificultades, desde entonces, parecen no avanzar porque hay muchos
intereses y mucha desinformación en el camino. Y, por otro lado, de
manera contradictoria, la gente está como saturada y harta de que le
hablen de ecología. Ese fenómeno también lo recojo en algún momento del
libro. <strong>Hay hasta un término que han acuñado los sociólogos, la ecofatiga</strong>,
para describirlo. Efectivamente, como bien indicas, hay mucha cháchara,
mucho marketing verde, mucha propaganda, mucho uso de imágenes,
estilemas, apropiación de contenidos. Ahora la Unión Europea está
hablando de economía circular. Se utilizan conceptos que vienen del
movimiento ecologista y que han sido apropiados, transformados en otra
cosa. <strong>Sustentabilidad o sostenibilidad, por ejemplo, son nociones que vienen del mundo ecológico</strong>,
pero cuando un presidente o un consejero delegado de una gran empresa
habla de desarrollo sostenible, en el 99% de los casos está
transformando en su contrario lo que inicialmente fue el sentido del
término. Todo eso lleva a <strong>una situación de muchísima confusión</strong>,
en la cual la gente tiene muchas veces la impresión de que todo el
tiempo se está hablando de ecología, de que se hacen cosas que están muy
cerca de quienes pueden manejar palancas de poder. Hay muchísima
propaganda, muchísima moda alrededor que lo desvirtúa todo. Se publican
revistas que nos venden el concepto de la buena vida, pero que están
llenas de anuncios a toda página de grandes empresas energéticas. Eso es
lo que metaboliza como ecología la cultura dominante y resulta muy
perjudicial, porque, por supuesto, no tiene nada que ver, está muy
alejado de lo que debería ser, de lo que nos tocaría hacer.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9705 size-large" height="405" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02640.jpg?w=610&h=405" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="610" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– En su momento nos ilusionaron
los verdes alemanes. Parecía que podían hacer girar los acontecimientos
en otra dirección, pero ahora tienen un perfil más bajo.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Bueno, ese es un asunto complejo. Yo <strong>escribí mi tesis doctoral sobre los verdes alemanes hace muchos años</strong>.
¿Qué ha pasado ahí? De nuevo no podemos entenderlo sin ver lo que ha
sido el potentísimo despliegue de la política neoliberal en la que
estamos inmersos y sin analizar a fondo como <strong>nuestras sociedades han ido yendo hacia la derecha, </strong>hacia
la derecha, hacia la derecha, sin ser, muchas veces, del todo
conscientes. Hay un fenómeno que los psicólogos sociales tienen muy bien
estudiado y que denominan<strong> los puntos de referencia cambiantes</strong>.
Cuando una sociedad entera se desplaza en cierta dirección poco a poco,
de manera que todo -las instituciones, los valores, las gentes-, va
moviéndose al mismo tiempo, en el mismo sentido, la sensación puede ser
que nada se mueve, que está uno básicamente en el mismo punto, pero los
cambios pueden ser brutales. Esto se ha estudiado, por ejemplo, en
relación a <strong>la Alemania de los años 30</strong>. A medida que
todo iba llevando al estado nazi que conocemos, desde dentro, a mucha
gente le parecía que no pasaba nada importante, porque todo se iba
desplazando al mismo tiempo en la misma dirección. Yo creo que aquí
también ha pasado algo parecido. Los verdes alemanes, que son el
partido ecologista más interesante que ha surgido hasta el momento, el
experimento sociopolítico más importante, tuvo en sus inicios un
componente dominante de izquierda, aunque siempre muy mezclado con el
centro e incluso la derecha, pero, coincidiendo con el paso al
neoliberalismo, y pese a haber crecimiento y éxitos electorales, <strong>ese ala de izquierda del partido va siendo marginada y en parte lo acaba abandonando</strong>.
A medida que la sociedad fue avanzando hacia la derecha, también los
arrastró a ellos en la corriente. Una y otra vez nos tropezamos con lo
mismo. No podemos de verdad ecologizar esta sociedad sin chocar
frontalmente con el capitalismo. <strong>Si queremos ir hacia una economía ecológica hacen falta rupturas con el capitalismo y eso son palabras mayores</strong>. Y, por otra parte, ahora mismo hay que plantearse seriamente la siguiente pregunta: <strong>¿Qué es la izquierda hoy?</strong>
Seguimos hablando por inercia de partidos socialdemócratas, por
ejemplo, cuando a un socialdemócrata de los años 20, 30 o 40, si viera
qué tipo de políticas o de discursos adopta la gente que así se sigue
llamando, se le erizaría todo el vello de la piel. <strong>La
socialdemocracia de Tony Blair o de Rodríguez Zapatero no tiene nada que
ver con lo que fue históricamente la socialdemocracia</strong>. Pero,
volviendo a lo de antes, el ecologismo tomado en serio es
anticapitalista y eso es bien fuerte, porque dónde hay políticas
anticapitalistas ahora en nuestras sociedades. Son absolutamente
minoritarias. En ese escenario es donde hay que situar la deriva de los
ecosocialistas alemanes, de todas esas corrientes o personas que
abandonaron, al final cansadas, el partido en la década de los 80. Desde
mediados de los 90, la descripción politológica correcta de los verdes
alemanes sería la de <strong>ecoliberales</strong> con un mayor grado de sensibilidad social. Eso mismo sirve para otros partidos verdes europeos.</div>
<blockquote>
<div style="padding-left: 30px; text-align: justify;">
<em><strong>Hay mucha
cháchara, mucho marketing verde, mucha propaganda, mucho uso de
imágenes, estilemas, apropiación de contenidos. Hay muchísima
propaganda, muchísima moda alrededor que lo desvirtúa todo. Se publican
revistas que nos venden el concepto de la buena vida, pero que están
llenas de anuncios a toda página de grandes empresas energéticas. Eso es
lo que metaboliza como ecología la cultura dominante y resulta muy
perjudicial, porque, por supuesto, no tiene nada que ver, está muy
alejado de lo que debería ser, de lo que nos tocaría hacer.</strong></em></div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– ¿Y en España? Equo parece conformarse con un discreto segundo plano.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– La historia española es una historia
muy distinta por la singularidad de la dictadura. La articulación de ese
espacio político ha sido bastante compleja y, al final, en parte por
errores propios, en parte por la ocupación de ese territorio por otras <strong>formaciones como Izquierda Unida</strong>, la cosa ha ido como ha ido. <strong>Equo ha aparecido ya muy tarde y hay cosas muy valiosas, pero ojalá tuviera más fuerza</strong>.
Con mucha frecuencia nos planteamos qué es lo que hemos hecho mal, qué
errores hemos cometido, y, sin duda los hay; hay errores propios en los
últimos 30 años que pueden explicar circunstancias desfavorables, pero
no nos equivoquemos. Lo principal no es tanto lo que hayamos podido
hacer mal, sino el poder brutal y en aumento que nos hemos encontrado
delante. Y vuelvo al dato de antes: en la comunidad autónoma de Madrid
somos 50, 60 activistas a lo sumo, en una asociación como Ecologistas en
Acción, en un entorno de seis millones de personas. Esa es la
lamentable situación, la acusada desproporción de fuerzas.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9703 size-medium" height="677" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02635.jpg?w=450&h=677" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="450" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– Sin embargo, el caso español es
muy curioso. Desde el 15-M, la rapidez a la que se ha producido todo es
espectacular. En el libro hablas de la ilusión que ha generado la
irrupción de un partido como Podemos. ¿Hacia dónde puede ir esa ilusión y
hasta qué punto en Podemos tiene peso la preocupación ecológica, la
conciencia de los cambios que será necesario acometer y explicar a la
gente? No parece que se marque demasiado el acento por ahí.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– En España han cambiado muchas cosas para bien, sobre todo <strong>el despertar de parte de la sociedad a partir del 15-M</strong>.
Pero tampoco debemos sobreestimar eso. Uno de los lemas, consignas,
incluso micropoemas que se escribían en Sol y en muchas plazas de otras
ciudades españolas, el mes de mayo de 2011, era: <strong>“dormíamos y hemos despertado”</strong>.
Esa frase, con todas sus variantes, expresa algo muy valioso. La
sociedad española ha ido abriendo algo los ojos en medio de la narcosis
generalizada en la que estamos. Y, aunque lo parezca, eso tampoco surgió
de la nada. No es que antes no hubiera movimientos sociales y de
repente aparecieran por arte de magia. Muchos de esos movimientos
arrancaron de atrás, de la <strong>dinámica de los foros sociales mundiales, del espíritu del alzamiento neozapatista en México en 1994</strong> y, sobre todo, después, del <strong>quebranto que provocó la crisis económica y financiera</strong>,
lo que hizo que se dieran condiciones para que sectores cada vez más
amplios de la población empezaran a ver con mayor claridad el mundo en
el que estamos. Pero, con todo, hay que intentar ver las cosas con
cierta perspectiva. Yo estoy metido de cabeza en todo esto. Me presenté
con otros compañeros al <strong>Consejo ciudadano autonómico de Podemos</strong> y, junto con otra mucha gente, ahora estoy trabajando en la <strong>redacción del programa autonómico para Madrid</strong>,
donde me ocupo de las cuestiones ecológico sociales. Por eso no lo veo
como algo ajeno, puedo hablar del proceso en primera persona y puedo
decir que hay sectores que tienden a sobrevalorar algunas de las cosas
que han ido sucediendo, que hay mucha gente joven que tiene una
confianza plena en la capacidad movilizadora de las redes sociales, algo
en lo que yo soy mucho más escéptico. Recuerdo, por ejemplo, <strong>una conversación con uno de los activistas de Acampada Sol</strong>,
alguien metido muy de lleno en lo que había sido la acampada en Sol y
el 15-M. Su conclusión era que se había conseguido politizar a cinco
millones de personas. Y yo reflexiono: <strong>Si de verdad hubiéramos politizado en serio a cinco millones de personas, ya estaríamos en otro contexto electoral y político</strong>.
Hay cambios muy importantes y hay posibilidades de ruptura, pero ya
veremos hasta dónde se llega. Yo de lo que estoy convencido es de que lo
que nos haría falta es una sociedad que dejara de actuar básicamente
como espectadora, espectadora a través de pantallas pequeñas, de
pantallas grandes, dándole a “me gusta” aquí y allá. Una cosa es que una
encuesta demoscópica te diga que el 80% de la sociedad española muestra
su simpatía por esta gente joven, que ha acampado en las plazas, y otra
cosa son los resultados a partir de las convocatorias electorales, las
posibilidades reales de impulsar cambios en la sociedad. Ahí tenemos las
elecciones andaluzas y ahora toca ver que tal se dan las autonómicas y
municipales… Insisto: <strong>debemos pedir democracia real ya</strong>, <strong>pero
nos tenemos que dar cuenta de que eso no es posible sin que muchísima
gente eche muchísimas horas de trabajo desgastante, disciplinado y
cotidiano</strong> en distintos contextos. Una democracia de
espectadores es una contradicción en los términos. Democracia real
quiere decir mucha gente echando mucho tiempo en organización,
formación, lucha política, actividad disciplinada. Es en ese espacio
donde se dan perspectivas interesantes. Lo que está sucediendo en <strong>Grecia</strong>,
lo que nos está permitiendo ver de la posibilidad de actuar de otra
manera no hegemónica y, a la vez, del comportamiento de la UE, es muy
interesante. Y lo que tal vez pase aquí tiene, desde luego, un valor
grande, pero, al mismo tiempo, debemos dimensionar muy bien todo esto
para no llamarnos a engaño y darnos el batacazo. Es un poco lo que pasó
en <strong>Andalucía</strong>. Si lo pensamos bien quince diputados
alcanzados en tan poco tiempo de trayecto, no está nada mal, pero se ha
recibido como una especie de derrota. No hay que hacerse demasiadas
ilusiones sobre el nivel de politización real. Cuántas veces oímos, por
parte de sociólogos y politólogos, que hay una mayoría social de
izquierda. Eso da lugar a muchas ilusiones, pero calma; pensemos en la
gente que de verdad es consciente del tipo de confrontación que hace
falta para cambiar de verdad las cosas..</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9695 size-large" height="405" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02650.jpg?w=610&h=405" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="610" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– Los cambios de valores, de
conciencia, suelen ser procesos lentos. Como dice Julio Anguita, el
político debe tener la paciencia del campesino. En Grecia, el trayecto
de Syriza fue largo…</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Sí, pero también es verdad que <strong>la velocidad de la historia no es siempre lineal</strong>,
que también se dan aceleraciones, cambios mucho más rápidos. Eso es
posible y ahí el drama, que sólo una parte muy pequeña de la sociedad ve
por este negacionismo generalizado sobre las cuestiones ecológicas del
que hablábamos antes, es que la historia ya no va a ser lo que era. <strong>El drama es que ya no tenemos mucho tiempo para evitar peligros enormes</strong>.
Estamos en tiempo de descuento y eso es lo que mucha gente, sensible
ahora a cuestiones de desigualdad social, democratización en sentido
amplio, lucha contra la corrupción, no acaba de asimilar. Ante la
cuestión del abismo ecológico social son conscientes sectores aún muy
minoritarios. Hemos dicho: “Dormíamos, pero hemos despertado”. Ahora nos
hace falta despertar todavía bastante más.</div>
<blockquote>
<div style="padding-left: 30px; text-align: justify;">
<em><strong>Lo que nos
haría falta es una sociedad que dejara de actuar básicamente como
espectadora, espectadora a través de pantallas pequeñas, de pantallas
grandes, dándole a “me gusta” aquí y allá. Una cosa es que una encuesta
demoscópica te diga que el 80% de la sociedad española muestra su
simpatía por esta gente joven, que ha acampado en las plazas, y otra
cosa son los resultados a partir de las convocatorias electorales, las
posibilidades reales de impulsar cambios en la sociedad.</strong></em></div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– Hablábamos de Grecia, un
pequeño bastión en medio de la homogeneización. Por una parte, es
esperanzador que haya gobiernos que planten cara, que nos hagan ver lo
que se esconde detrás de la mal dirigida austeridad, pero también
produce bastante frustración ver que las democracias no funcionan, que
el poder, el sistema, no permite impulsar políticas de rescate social
urgentes. La deuda, una deuda ilegítima en gran parte, es la gran
prioridad de la Unión Europea.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Así es. Y ya vemos qué políticas son
las que nuestros vecinos griegos están intentando impulsar. Son medidas
propias de lo que fue la socialdemocracia hasta hace muy poco. Esto es
lo que nos debería hacer ver el mundo en el que estamos, la brutal
dirección hacia la derecha que hemos tomado. <strong>Las políticas que está proponiendo Syriza no suponen ninguna ruptura revolucionaria</strong>.
Se trata de introducir un poco de justicia social, que fue lo que
defendió hasta hace poco la socialdemocracia. Y, sin embargo, todos esos
partidos que siguen llamándose socialdemócratas, permanecen impasibles,
apoyan todo lo contrario a lo que fueron sus principios. Es una gran
paradoja.</div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– La crisis ha abierto ventanas
de transparencia, ha hecho que volvamos la vista hacia los derechos
humanos. El derecho al trabajo, al techo, a la salud y la educación,
están en la primera línea de las reivindicaciones, pero en lo que
respecta a las amenazas del planeta pensamos que habrá tiempo, que no es
la prioridad.</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Bueno, eso es comprensible en un país
como éste por la quiebra que se ha producido, por el nivel de desempleo
tan elevado que tenemos. Hemos ido aguantando por los distintos
colchones sociales que han amortiguado la caída, pero <strong>el hambre y la desnutrición han vuelto a aparecer</strong>.
El error es no ver como todas esas cuestiones están conectadas con las
preocupaciones ecológicas. Pensar, como han formulado también en
ocasiones amigos y compañeros, que lo que toca ahora es dar de comer a
la gente y aplazar lo otro, que ya vendrá el tiempo de resolverlo, es un
error. Somos ecodependientes e interdependientes. <strong>No se puede organizar una economía viable sin tener en cuenta las amenazas ecológicas en las que ya estamos</strong> y que todavía van a agudizarse mucho más. Y eso no es algo optativo. Lo vamos a aprender por las buenas o por las malas. <strong>Estamos ya en tiempos de descenso energético</strong>.
Las sociedades industriales se han desarrollado de forma explosiva
gracias a un chute de combustibles fósiles y lo que tenemos ahora es un
capitalismo fosilista, adjetivo que no deberíamos olvidar. Sin ese chute
de energía, de esa bioenergía acumulada durante cientos de millones de
años en forma de carbón, petróleo, gas natural, que nosotros nos hemos
puesto a sobre consumir de manera bastante inconsciente e irresponsable
en estos dos siglos últimos, el mundo no sería como es y nuestras
sociedades no se hubieran deformado tanto en ciertas dimensiones como lo
han hecho hasta ahora. Sea como fuere, esta es la historia de nuestros
dos últimos siglos y eso se acaba. No va a seguir existiendo la
posibilidad de sobreconsumo energético que ahora tenemos y que nos sigue
pareciendo normal. Sabemos por distintos estudios e investigaciones que
para funcionar con economías viables y con cierta justicia global, es
decir, en un mundo relativamente igualitario, sin <strong>esa quiebra brutal entre Norte y Sur</strong>,
mirando a los más desfavorecidos del planeta, los países enriquecidos,
incluyendo al nuestro, que, pese a la situación actual, globalmente
sigue formando parte de ese norte enriquecido, tenemos que reducir el
uso de energía y materiales en nueve décimas partes. ¿De qué manera se
hace eso? Pues <strong>hay cosas que se pueden hacer sin perturbar tanto el orden existente</strong>,
pero todos los cambios importantes suponen un choque frontal contra el
funcionamiento de las estructuras actuales. Uno puede organizar una
economía que satisfaga adecuadamente las necesidades humanas de esa
enorme población que somos ahora, de más de 7.200 millones de personas,
con las reducciones de energía y materiales necesarias, con los
consiguientes impactos asociados, pero eso no puede ser una economía
capitalista, de crecimiento constante y de generación continua de
supuestas nuevas necesidades. Tiene que ser otra cosa.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9707 size-medium" height="678" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02644.jpg?w=450&h=678" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="450" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– ¿Algún ejemplo? ¿Algo por lo que se pueda empezar a actuar ya?</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Como te decía, se pueden dar algunos
pasos. Recientemente, por ejemplo, dimos una charla formativa en el
círculo de Podemos en Retiro sobre basuras y residuos. En ese terreno,
en el de la gestión de los residuos sólidos en los recintos urbanos, se
le puede dar la vuelta yendo hacia un modelo deseable, con muchas
ventajas sobre el actual, sin topar más que con los intereses, en este
caso, de las grandes constructoras que tienen su división de gestión de
basuras y se hacen con las contratas de los ayuntamientos. Chocaríamos
contra ese poder económico, pero casi nada más, para alcanzar la
alternativa del modelo de residuo cero, que está articulado y ya está
funcionando en muchos pueblos y ciudades de Europa, incluyendo urbes
grandes como Milán. De esta manera, siguiendo el ejemplo de pueblos que
ya lo hacen también en España, en Cataluña, en el País Vasco y en
Baleares, en Madrid pasaríamos a tener una gestión adecuada, recuperando
y reciclando adecuadamente. Esto se puede hacer y ojalá que tengamos la
oportunidad, pero los residuos sólidos urbanos son un pequeño
porcentaje del problema general de residuos en nuestra sociedad. Se
trata apenas del tres o cuatro por ciento, el resto son residuos
industriales, de construcción. Entra en juego la economía entera. Para
actuar en todos esos ámbitos, para introducir modificaciones, se
necesitan otras estructuras económicas, otra forma de funcionamiento.
Hoy podemos dar algunos pasos, fuera del sistema dominante en el que
estamos, pero sabemos que sin momentos de ruptura muy importantes, no
podrán cambiar las cosas que de verdad tienen que hacerlo.</div>
<blockquote>
<div style="padding-left: 30px; text-align: justify;">
<em><strong>Se puede
organizar una economía que satisfaga adecuadamente las necesidades
humanas de esa enorme población que somos ahora, de más de 7.200
millones de personas, con las reducciones de energía y materiales
necesarias, con los consiguientes impactos asociados, pero eso no puede
ser una economía capitalista, de crecimiento constante y de generación
continua de supuestas nuevas necesidades. Tiene que ser otra cosa.</strong></em></div>
</blockquote>
<div style="text-align: justify;">
<strong>– Una y otra vez te refieres en
el libro al credo del Mercado. Un credo que será necesario derrumbar.
¿No crees que su resquebrajamiento ya ha empezado?</strong></div>
<div style="text-align: justify;">
– Sin duda. De todas las cosas buenas
que nos han pasado en estos últimos años es fundamental la apertura de
los discursos públicos, a todos los niveles. En los últimos cuatro años,
de repente nos hemos visto en el metro o en el autobús hablando entre
nosotros del funcionamiento del mercado financiero, de la deuda pública,
de los servicios sociales. Eso es nuevo y es positivo, claro que sí.
Pero a su lado está, por ejemplo, <strong>el anulamiento de algunos sectores clave, entre ellos los medios de comunicación masivos</strong>,
que obstaculiza que lleguemos a la verdad de los hechos. Los medios
dependen más estrechamente de los grandes grupos económicos y eso
también lo hemos visto en <strong>el mundo de la universidad y de la investigación científica</strong>.
Se trata de sectores clave para una sociedad moderna y, sin embargo,
cada vez son más dependientes del capital, para nuestra desgracia. La
cosa se ha degradado tanto, y tan rápidamente, en tan solo treinta años,
que su alcance se nos escapa. Lo que podemos hacer es <strong>intentar dar algunos pasos e ir creando condiciones para que haya movimientos mucho más organizados, masivos, conscientes</strong>,
de gente que quiera transformar las cosas. Ese es el sentido
fundamental que yo veo ahora mismo al esfuerzo que se está haciendo para
intentar dar un giro importante hacia otra dirección en todas las áreas
de la vida, también, por supuesto, en las instituciones que nos
representan.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9708 size-medium" height="678" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02646.jpg?w=450&h=678" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="450" /></div>
<div style="text-align: justify;">
<strong>Construir alternativas, proyectos de cooperación, de participación</strong>.
Volver a recuperar conceptos como solidaridad, tan desprestigiados en
las sociedades del lucro, esa es la idea con la que nos quedamos tras
recorrer las páginas, las conclusiones, el compendio de lecturas al que
nos acerca Jorge Riechmann en Autoconstrucción. Nos presenta, por
ejemplo, <strong>la idea de Joaquim Sempere de construir espacios, sociedades más resistentes a los peligros que nos amenazan</strong>,
y que el sociólogo denomina municipios en transición. Una experiencia a
la que habrá que llegar tras entablar un combate cultural que someta a
crítica el presente. Nos acerca a las <strong>teorías del decrecimiento que preconizan estilos de vida más frugales</strong>,
que nos pueden seducir con la posibilidad de vidas más sencillas y
locales. ¿Cómo convencernos de que el decrecimiento no implica menos
bienestar, ni, por supuesto, menos felicidad? ¿Cómo recuperar el buen
sentido de la palabra austeridad que tanto han desfigurado los
neoliberales? ¿Queremos de verdad cambiar, autoconstruirnos? Son algunas
de las preguntas que plantea el recorrido que nos propone Riechmann, un
recorrido que nos induce a reflexionar, a luchar con nuestras propias
contradicciones, resistencias e inconsistencias. He ahí su gran valor.</div>
<div style="text-align: justify;">
¿Podemos controlar la megamáquina capitalista, se pregunta el autor. “<em>Si
no podemos hacerlo, ¿se sigue de ello un retirarse a esperar la
catástrofe, hacia la que avanzamos a toda velocidad? Por una parte, está
la vieja posibilidad de poner palos en las ruedas, actualizada como
echar arena entre los engranajes primero, y más recientemente como
desconfigurar conexiones entre los circuitos (…) Por otra parte,
subsiste la orientación general de fracasar mejor. <strong>El derrumbe de la Megamáquina será, lo sabemos, una espantosa tragedia</strong>: cabe trabajar por reducir en lo posible la inconcebible masa de sufrimiento, tanto el humano como el de las demás criaturas</em>”,
argumenta Riechmann, quien habla de comenzar ya a construir más botes
salvavidas y a organizar las formas de cooperación solidaria que pueden
reducir los costes del naufragio”. Catastrofismo, dirán algunos.
Simplemente realismo, pensamos otros. Un realismo que nos lleva a
visualizar en episodios de ciencia ficción cada vez más cercanos.</div>
<div style="text-align: justify;">
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9698 size-medium" height="678" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02659.jpg?w=450&h=678" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="450" /></div>
<div style="padding-left: 30px; text-align: justify;">
<em>“Nos pierde / la
codicia de los menos / la cobardía de los más / la irracionalidad de
todos / falta lenguaje / falta decir / del horror que viene / Pero tú ya
lo sabes: donde termina el reino de la mercancía / comienza la vida…”</em></div>
<div style="text-align: justify;">
Lo dice Riechmann de otro modo, a través de estos versos de su libro <em><strong>Poemas lisiados</strong></em>.
El lenguaje de la poesía, La poesía, sí, capaz de tocar lo invisible,
lo oculto, lo callado. La poesía como ventana de lucidez.</div>
<img alt="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" class="aligncenter wp-image-9704 size-large" height="405" src="https://lecturassumergidas.files.wordpress.com/2015/04/jorgeriechmann_por_nachogoberna-02639.jpg?w=610&h=405" title="Jorge Riechmann. Por Nacho Goberna © 2015" width="610" /><br />
<hr />
<strong><em>Autoconstrucción (La transformación cultural que necesitamos) </em>ha sido publicado por Ediciones Catarata. <em>Poemas lisiados</em> se ha publicado en el sello La Oveja Roja. </strong><br />
<strong><em>Todas las fotografías fueron tomadas por Nacho Goberna © 2015 durante el transcurso de la entrevista.</em></strong><br />
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1951481561398792176.post-3586902876787360422015-05-09T18:20:00.001+02:002016-02-04T11:09:26.232+01:00A brave opinion on the racist facebook friends we all have <div dir="ltr">
A brave opinion on the racist facebook friends we all have </div>
<div dir="ltr">
<br /></div>
<div dir="ltr">
<a href="http://www.theguardian.com/commentisfree/2015/may/09/dont-unfriend-your-racist-facebook-friends-teach-them" rel="nofollow" target="_blank">Original article on The Guardian</a></div>
<h1 class="content__headline js-score" itemprop="headline">
Don’t unfriend your racist Facebook friends. Teach them
</h1>
<span class="content__headline content__headline--byline"><span itemprop="author" itemscope="" itemtype="http://schema.org/Person">
<a class="tone-colour" data-link-name="auto tag link" href="http://www.theguardian.com/profile/dexter-thomas" itemprop="sameAs" rel="author"><span itemprop="name">Dexter Thomas</span></a></span></span>
<div class="tonal__standfirst u-cf">
<div class="gs-container">
<div class="content__main-column">
<div class="content__standfirst" data-component="standfirst" data-link-name="standfirst">
The Baltimore unrest showed bigots need to hear the voice of reason. And the rest of us need them to stay in touch with reality<br />
</div>
</div>
</div>
</div>
<span class="drop-cap"><span class="drop-cap__inner">P</span></span>erhaps
you’re like me, and the first thing you do every morning is to check
social media. And perhaps on a recent morning, you opened your Facebook app only to see your old high school buddy Stacey post this:<div class="content__article-body from-content-api js-article__body" data-test-id="article-review-body" itemprop="articleBody">
“Why don’t we just send the US Marines to Baltimore
City and clean house?! We don’t need these animals around us anyway!”.
It was posted an hour ago, and already has 107 likes. You scroll down a
bit further down the thread. One of her friends chimes in: “I’m down! As
a Marine veteran, I’d love to smoke some of them animals!”. 46 likes on
this one.<br />
I’m gonna delete this jerk, you think. You don’t need this
negativity, especially not this early in the morning. It doesn’t matter
if she used to share her fries with you when you ditched gym class to go
to Burger King. That was then, this is now – and whatever she’s become
now disgusts you. You move your cursor, hovering over the ‘unfriend’
button.<br />
But please, don’t. Not only because she needs you (she does), but
because you need her. She’s the only thing keeping you in touch with
reality right now.<br />
I get it. It’s frustrating. We went through this with Ferguson, and
Staten Island. Back then, your buddy posted fake pictures of Michael
Brown with a gun, and now, she posts<a class=" u-underline" data-component="in-body-link" data-link-name="in body link" href="https://medium.com/@Storyful/baltimore-looting-tweets-show-importance-of-quick-and-easy-image-checks-a713bbcc275e"> fake pictures of looting</a>. She posts videos of a CVS burning. She doesn’t post the videos of<a class=" u-underline" data-component="in-body-link" data-link-name="in body link" href="http://www.huffingtonpost.com/2015/04/27/police-throw-rocks-baltimore_n_7156614.html"> police throwing bricks at children</a>, or the video of a young man literally<a class=" u-underline" data-component="in-body-link" data-link-name="in body link" href="http://www.theguardian.com/us-news/2015/apr/29/baltimore-protester-kidnapped-on-live-tv-joseph-kent"> being kidnapped by armored troops</a>
as CNN reporters ignore him. At best, she might post the now-infamous
video of the woman smacking her child, calling her a hero – yes, Stacey,
the same woman that posted that 10 Reasons Not to Hit your Child
listicle last week. But she’s happy to have permission to cheer on the
beating of a black child.<br />
To her, broken windows really are<a class=" u-underline" data-component="in-body-link" data-link-name="in body link" href="http://www.salon.com/2015/04/29/ferguson_activist_perfectly_schools_wolf_blitzer_you_are_suggesting_broken_windows_are_worse_than_broken_spines/"> worse than broken (black) spines</a>.<br />
It’s strange. All of a sudden, your friends, many of them (but not all) white, have an opinion on black politics.<br />
These people – your friends – have never once said anything about
Baltimore before Freddie Gray. Poverty did not concern them. Lack of <a class=" u-underline" data-component="in-body-link" data-link-name="in body link" href="http://articles.baltimoresun.com/2012-03-04/health/bs-hs-food-deserts-map-20120304_1_food-deserts-food-options-healthy-foods">access to healthy food</a>
did not concern them. Even police brutality did not concern them,
except when it came with a video, because that was free entertainment.
But suddenly, they are not only moral authorities, but political
strategists and historians: If even one of you people steal something,
it will ruin your cause – can’t you see that? You’ve got to police your
own. Isn’t this rap music’s fault? Can’t you be like Dr. King? He never
inconvenienced people’s daily commutes.<br />
It’s a bizarre kind of Monday Morning quarterbacking – except instead
of wannabe athletes, they become wannabe political leaders of a
movement they don’t even support.<br />
We know what their true thoughts are. Their feeling for us – and by
‘us’ I do not only mean black people – is somewhere between angry
disinterest and hatred. They say that they are not racists, but we know
better. We know that the word ‘racist’ does not only apply to the man
holding the rope around the black man’s neck in those <a class=" u-underline" data-component="in-body-link" data-link-name="in body link" href="https://iconicphotos.wordpress.com/2009/08/12/lynching-of-young-blacks/">old postcards of public hangings</a>.
It also applies to the spectators who point at the body as it swings in
the air. It also applies to the people at home, not pictured, who don’t
attend the festivities, but would rather not think about them.<br />
That is, we know that the violence of racism doesn’t always come with
the throw of a noose and the cock of a gun. Sometimes, it comes with a
shrug of the shoulders, and a click of the tongue. But, they have a
point when they complain about the rioting and say that violence will
not solve violence. Violence is not the answer here. We can’t allow
ourselves to sink to their level.<br />
What is happening in Baltimore is the result of America turning its
back on its own. It is violence of willful ignorance that we cannot
afford to imitate. There can be no ‘safe space’ for us, until all spaces
are safe. If we aren’t safe in the courtrooms or in the streets, we
can’t pretend to be safe online.<br />
So: don’t be like them. Real life is not<a class=" u-underline" data-component="in-body-link" data-link-name="in body link" href="http://www.theguardian.com/commentisfree/2015/may/01/konmari-facebook-feed-friend-list"> a closet that you can ‘tidy up’</a>.
It is a world in which the girl you used to eat bugs with in
kindergarten can grow up to be a frightened xenophobe. Stacey, and your
other friends can get annoyed at Baltimore links and go look at cat
pictures, but you cannot. Read their statuses, observe their entitled
annoyance. You don’t have to respond, yet. <br />
But don’t turn away.<br />
</div>
<div dir="ltr">
<br /></div>
Stefhttp://www.blogger.com/profile/09077494734860387375noreply@blogger.com1