Tanto per chiarire / Just to make it clear


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giovedì 15 gennaio 2015

Analisi estremamente intelligente sull'IS e sulle nostre colpe di occidentali

Da Limes: 
http://temi.repubblica.it/limes/la-sfida-che-ci-lancia-lo-stato-islamico/67586 

La sfida che ci lancia lo Stato Islamico


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di Mario Giro*
Non basteranno armi e denaro contro al Baghdadi: dobbiamo essere in grado di proporre al mondo sunnita una narrazione alternativa e più convincente.

Le maschere del califfo

[Carta di Laura Canali - clicca sulla carta per ingrandirla]
Da tempo i jihadisti cercavano di ottenere un proprio paese, uno “Stato” islamista. Possedere gli strumenti e i privilegi di uno Stato è un atout formidabile. Nel corso dei decenni ci hanno provato in Sudan, Afghanistan, Yemen, nel Sahel eccetera per impossessarsi di uno Stato già esistente e farlo proprio.


In gergo jihadista si chiama la lotta contro il “nemico vicino”, cioè i regimi corrotti e filo-occidentali, considerati eretici. Sullo sfondo una polemica che divide ancora oggi il mondo dell’estremismo islamista.


Mentre al Qaeda proseguiva la sua guerra al “nemico lontano” - Usa, Occidente ma anche Russia eccetera - altri ritenevano (e ritengono) che sia meglio concentrarsi nel “dar el islam”, la terra dell’islam. I tentativi di impadronirsi di uno Stato erano però andati a vuoto. Al Qaeda sembrava aver ragione: spargere terrore restando nell’ombra, come con l’11 settembre. Tuttavia l’attentato alle Torri gemelle, pur con il suo enorme impatto mediatico, non ha mutato gli equilibri geopolitici. ‘La nostra strategia è quella giusta - ragionavano i fautori dell’attacco al nemico vicino - solo la tattica è sbagliata’.


Non conviene prendersela con uno Stato pre-esistente, difeso dalla comunità internazionale, ma concentrarsi su territori dalla scarsa coesione, con forti scontenti sociali e deboli relazioni col governo centrale. Nel mondo globalizzato tali zone sono numerose, anche nell’universo musulmano. Ora, con l’Is (Stato Islamico), tale Stato è stato creato: un pezzo di Siria e di Iraq, facendo saltare le frontiere tracciate dagli europei dopo la Prima guerra mondiale. Così, mentre Bin Laden è morto e i suoi successori braccati si nascondono, lo Stato islamico rinasce dalle ceneri dell’antico impero Ottomano, in Mesopotamia. Infatti al Baghdadi, leader dell’Is, si è autoproclamato califfo, uno dei titoli che aveva anche il Sultano di Istanbul.


È una mossa importante perché nell’immaginario musulmano rimanda ai primi secoli dell’Islam. Il “nuovo” Stato non è riconosciuto da nessuno ma i suoi sostenitori puntano alla legittimazione delle masse arabo-musulmane - sunniti stanchi dell’oppressione sciita - cui un’assidua propaganda fa luccicare il mito dell’epoca d’oro. Anche dopo la Grande guerra, con la fine degli ottomani, gli arabi avevano chiesto (senza ottenerlo) un regno. Si preferì il divide et impera creando Stati nazionali nuovi di zecca, come l'Iraq e la Siria.


Il mito dell’epoca d’oro è duro a morire nell’Islam. Da quando ha perso il potere temporale - in favore di turchi prima ed europei poi - il mondo arabo-musulmano non ha cessato di vagheggiare una forma di nostalgia per un passato remoto, quando il “vero” islam, egualitario ed incorrotto, regnava senza dissensi da Baghdad o Damasco. Si tratta di un mito senza basi reali: anche nei primi secoli ci furono lotte intestine, divisioni, corruzioni. Anzi fu in quell’epoca che si compì l’evento più grave per l’islam, la Fitna, il grande scisma tra sunniti e sciiti. Qui gioca anche una certa gelosia sunnita nei confronti degli sciiti che uno Stato ce l’hanno da sempre: l’Iran.


Gli Stati arabo-sunniti invece sono deboli, disegnati da estranei, divisi fra loro, in mano ad elite corrotte e prone allo straniero, incapaci di difendersi (vedi le sconfitte con Israele) e soprattutto insensibili ai bisogni della popolazione. Il nazionalismo arabo filo-occidentale non ha funzionato; meno ancora il socialismo panarabo proposto dal Cremlino ai tempi dell'Urss.


Cosa resta allora se non un califfato? L’Is scommette sul sentimento di umiliazione dei sunniti arabi e prospetta loro una soluzione etnico-religiosa. Così può giocare su due registri: usare un doppio discorso arabista e islamista assieme, all’occorrenza. Ci aveva provato anche Saddam verso la fine del suo dominio, quando da iperlaico aveva azzardato una rocambolesca conversione all’islam. Era troppo tardi, ma i successivi errori compiuti in Iraq e Siria hanno lasciato all’Is tutto lo spazio necessario. Certo un punto debole di al Baghdadi è proprio l’organizzazione dello Stato stesso: i suoi non paiono in grado di assicurare giustizia, lavoro e sicurezza ai “cittadini”.


L'amministrazione di uno Stato non si improvvisa e non basta stabilire tribunali religiosi sul territorio per soddisfare i bisogni di una popolazione che era tra le più laiche ed istruite del Medio Oriente, prima del decennio di embarghi e guerre. Ma il vero problema è il messaggio che l’idea stessa di “Stato islamico” veicola. È la rappresentazione che l’Is lancia a popolazioni stremate da guerre ripetute, umiliazioni, sconfitte e repressioni. A noi ciò sembra assurdo. A giusto titolo proviamo raccapriccio e orrore davanti alle immagini delle decapitazioni e delle altre assurde violenze. Ricordiamoci però che abbiamo avuto la stessa reazione davanti agli orrori delle guerre in ex Jugoslavia. Teniamo inoltre a mente che purtroppo tali pratiche oscene funzionano anche come appello e reclutamento di giovani, prima di tutto arabi e poi venuti da Occidente.


I messaggi dello Stato Islamico sono di due tipi: terrificanti verso di noi (Occidente e resto del mondo) per incutere paura e tenere a distanza; seducenti verso gli arabo-sunniti: ‘venite tutti qui, costruiamo il nostro Stato e saremo finalmente liberi!’, proclama il califfo. È a questo messaggio che dobbiamo rivolgere tutta la nostra attenzione; ad esso vanno trovate risposte convincenti. La storia è punteggiata da miti che rivivono artificialmente: si pensi alle nostalgie nazionaliste in Europa, ai secessionismi o alle guerre balcaniche combattute in nome di un passato remoto. C’è un tempo che non passa, una memoria malata davanti ad un presente troppo incerto, frustrante e insoddisfacente. Guardare indietro sembra un rifugio sicuro. D’altronde in questo nostro tempo fiorisce il vintage e il futuro appare come una minaccia. Spesso le dittature iniziano così, ne sappiamo qualcosa in Europa. E cominciano così anche le guerre: quelle contro un nemico “immaginario” e immaginato, costruito a tavolino.


Il nodo da affrontare dunque è la “narrazione” che l’Is ha elaborato negli anni e realizzato in questi mesi. La ritroviamo nei post di tanti giovani jihadisti che hanno scelto di andare a combattere partendo da moltissimi paesi: un misto di recriminazioni storico-immaginarie, vere frustrazioni, false identificazioni, distorsione di miti occidentali (come le grand soir della rivoluzione, che risolverà ogni cosa). Nel discorso che l’Is invia per internet viene ad esempio ritorto contro di noi tutto l’armamentario post-ideologico “no-global” e nichilista della “falsa democrazia delle banche”.


Se la democrazia è questa, perché difenderla? Chiede al Baghdadi agli arabi che pure si erano infervorati per le Primavere e agli emigrati musulmani in Europa che si sentono cittadini di seconda classe? L’Is ci conosce bene e sa fare marketing. Ecco perché si tratta di un avversario temibile, molto più pericoloso dei talebani (antidiluviani che non amano la tecnologia) o di altre forme di estremismo passatista. Un gesto come quello degli australiani che si sono offerti di scortare gli immigrati musulmani nei giorni successivi all’attacco alla cioccolateria è molto più pericoloso per l’Is di qualsiasi discorso incendiario dei fomentatori della destra europea o americana. Assomiglia alla reazione dei norvegesi dopo Utoya: difendere la nostra qualità democratica senza cadere nella caccia alle streghe, che è proprio l’errore che vorrebbe farci commettere al Baghdadi.


Nel mondo del revivalismo estremista islamico vengono utilizzati tutti i registri ideologici, un mix di antico e postmoderno (con largo uso della tecnologia e dei social media), un nuovo prodotto etnico-religioso creato ad arte, simile alla raccolta degli scritti irrazionali dell’assassino di Utoya, Breivik o di altri. Davanti a tutto questo, la dottrina dello “scontro tra civiltà” è un’arma non solo spuntata ma goffamente preistorica. Come scrive Loretta Napoleoni nel suo recente saggio sull’Is, abbiamo a che fare con “l’utopia politica sunnita del XXI° secolo, un potente edificio filosofico che per secoli gli studiosi hanno cercato invano di far nascere”. Il cinismo inetto e isterico che prevale oggi in certe elite occidentali servirà solo ad aumentare la patologia. 

Per essere forti ci vuole un’idea, un’ideale, un’utopia da contrapporre all’Is, con forza e fiducia nei propri mezzi. Ma le “passioni tristi” di un mondo egocentrico e psicologicamente infragilito come il nostro non promettono bene. Dovremmo saper comunicare il valore universale della democrazia, accettando anche l’autocritica sul nostro egoismo che tutto vuole per sé e nulla concede. Sciaguratamente, sembriamo noi stessi stufi del metodo democratico. Dobbiamo poter trasmettere un’idea positiva di globalizzazione come incontro tra diversità non irriducibili e reciproco arricchimento. Ma ciò è possibile solo con una politica economica che non allarghi le diseguaglianze: sarebbe ora di smetterla con l’ipocrisia di imporre ad altri regole che noi stessi non seguiamo e non vogliamo: il peso del mondo multipolare si porta tutti insieme. Dovremmo poter comunicare il bello e il buono di un convivere basato sulla pace e sui diritti umani, se non fosse che spesso utilizziamo questi ultimi come arma contro altri, con un’arroganza che respinge. 

Di fronte alla sfida capiamo meglio cosa vuol dire “accoglienza” degli immigrati e integrazione, che hanno il merito almeno di non aumentare l’odio, l’incomprensione, la distanza. Chi vi si dedica lavora per il futuro e protegge la nostra civiltà molto meglio di chi grida, condanna e aumenta pregiudizi. Mense, scuole e luoghi di rifugio strappano tanti giovani musulmani alla disperazione dell’avventura jihadista, in modo non diverso da come scuole, servizi sociali e presenza delle associazioni strappano i giovani italiani alle mafie. Questa è una lezione tutta italiana da comunicare al mondo. Soprattutto la scuola: non è forse questa una battaglia ideale da fare totalmente nostra e da annunciare al mondo come narrazione alternativa?

Il terribile massacro di Peshawar - maestri uccisi davanti agli allievi e l’orribile caccia all’alunno - ci dà la dimensione di quanto l’umile ma nobile lavoro dell’insegnante sia pericoloso per il terrorismo di qualunque tipo. Il sangue di quegli insegnanti e di quei bambini pakistani si mescola così idealmente a quello di don Pino Puglisi e di tutti quelli che si sono sacrificati per l’educazione dei bambini e dei giovani. Dobbiamo onorare tutti gli educatori, maestri ed insegnati ovunque nel mondo, dalla valle dello Swat a Scampia, che credono nel potere della parola e non cedono alla violenza. Se c’è un luogo sacro in democrazia, tale è la scuola. Non basterebbe questa come narrazione alternativa se solo volessimo farcene carico? 

Come dice Malala: “abbiamo capito l’importanza delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi”. Se ha coraggio una ragazzina pakistana, non dovremmo crederci anche noi? Dobbiamo anzi ringraziare perché la contro-narrazione all’Is, sorta dalla vicenda di questi e tanti altri testimoni, ha ancora una sicura voce universale su cui contare: quella di papa Francesco che non manca mai di parlare al cuore in modo comprensibile al di là della Chiesa stessa. Allo stesso modo è degna di rispetto ogni iniziativa di dialogo tra mondi religiosi diversi, che semina amicizia e simpatia preparando così l’avvenire perché l’arte dell’incontro batte ogni pregiudizio. 

Per convincere “cuori e menti” in Medio Oriente non basteranno denaro e forza: occorrerà trovare un linguaggio convincente rivolto agli arabo-sunniti, oggi oggetto di una serissima contesa. Chi vincerà tale duello ne trarrà un vantaggio geopolitico di primo piano. Dovrà essere una politica risolutiva e unitaria, perché occorre far presto: il sangue versato diviene muro di odio e rancore. La decisiva reazione all’Is, come ad altri terrorismi, potrà alla fine venire solo in seno all’islam, svelando l’inganno e la trappola dello “Stato islamico”. 

In questo senso importante è stata la lettera di oltre 130 leader religiosi sunniti indirizzata ad al Baghdadi (lui stesso un laureato in studi islamici, non un dilettante): un testo durissimo, scritto con il linguaggio teologico-politico che unicamente in quel mondo si può intendere. Va messa in campo un’alternativa di politica, azioni e discorso, che tenga conto degli equilibri di un mondo vasto e complesso com’è quello sunnita, che rappresenta circa il 90% del miliardo e mezzo di musulmani nel mondo: tale è la posta in gioco.

Per approfondire: Tsunami in Medio Oriente

*Mario Giro è sottosegretario agli Affari Esteri.

(29/12/2014)

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