Tanto per chiarire / Just to make it clear


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martedì 28 gennaio 2014

Dov'è finito il nostro Paese?

Dov finito il nostro Paese?

di Giorgio Cattaneo

«Questo paese è meraviglioso», disse la donna, allungando lo sguardo sul latte nebbioso che esalava dalle acque e dai canneti della Maremma nella luce cruda e ancora incerta del primo mattino. La voce della donna era incrinata dalla commozione, sul treno che - insieme a centinaia di altri ordinari apostoli - la stava trasportando verso la capitale, dove di lì a poche ore si sarebbe messa in marcia la più gigantesca manifestazione di massa della storia, milioni di cittadini in corteo per tentare di fermare la guerra, contro l'Iraq di Saddam e le sue inesistenti bombe atomiche.

Era il 15 febbraio 2003, mille anni fa. C'era quel treno. E c'era quella donna, intenerita dallo spettacolo naturale inesauribile dell'Italia e convinta di vivere in un paese speciale, a suo modo nobile e generoso - la storia siamo noi, dopotutto, quando ce ne ricordiamo. Un paese amico, solidale, abbastanza ricco da essere tollerante e aperto. Un paese sereno, con una sua vocazione alla felicità. Un paese che oggi non c'è più.

Lo stesso uso comune di quella parola - paese - è divenuto monopolio di statistiche prima astruse e poi atroci. Il Pil, lo spread, la deflazione, la moneta unica, il rigore, l'addio al welfare, l'austerity, la spending review. Il debito pubblico esibito come colpa, le privatizzazioni-truffa come virtù. Spenta l'allegria di un tempo, estinta la fiducia nel futuro. Scomparsa la politica, con i suoi partiti. Spariti i politici: ci si accontenta di intrattenitori (prima Berlusconi, ora Renzi). Sparita la verità, la scomoda verità delle strade. Ci sono gli speaker, i commentatori, le breaking news che non spiegano mai niente.

È così che dilagano le leggende. Il perfido Bin Laden, il perfido Gheddafi, il perfido Assad. La maschera di Mario Draghi, quella di Mario Monti. I mestieranti di Palazzo Chigi, la vuota ritualità di parole consunte di fronte allo strazio quotidiano che sbarca a Lampedusa e si trascina nelle piazze del nord mettendo in scena la rabbia e la disperazione di ex operai, ex insegnanti precari, ex commercianti, ex imprenditori, ex artigiani, ex cittadini italiani ridotti a sudditi di un'autorità dispotica e nemica, verso la quale il governo nazionale è impotente, se non complice.

Paese felice, lo definiva Primo Levi, nonostante tutto. Una terra con mille piaghe endemiche, catastroficamente ingovernabile e sempre dominata da potenti padroni stranieri - eppure popolata da un'umanità tenace, ottimista, operosa. Un luogo non ostile, dove l'odio fanatico non è mai stato di casa. Che fine ha fatto, oggi, questo paese? Si sta letteralmente disintegrando, in apparenza senza un perché. Crolla, l'Italia, giorno per giorno. Cede sotto il colpi di manovre possenti sempre decise all'estero, lontano dal popolo italiano, in nome del quale si sostiene ancora di amministrare la giustizia, di promulgare le leggi. Popolo relativamente sovrano, in passato, ma oggi non più.

Persino nella guerra fredda, quelli che si opponevano l'un l'altro - con terribile durezza - erano modelli di civiltà, ipotesi di convivenza sociale e civile. Mondi che disponevano di codici, di lingue. È muta, invece, la suprema barbarie del regime tecnocratico: pretende di liquidare con la falsa imparzialità dei numeri le sue anonime operazioni di genocidio selettivo, di pulizia etno-economica, di macelleria sociale.

Il nuovo feudalesimo instaurato dal potere egemone, che utilizza armi di distruzione di massa come il terrorismo economico e la disinformazione sistematica, pretende una platea di docili sudditi, di consumatori drogati, di telespettatori passivi, di ex cittadini ed ex lavoratori catapultati nell'indigenza, nel bisogno, nella paura del domani. E ora che il sistema sta franando, non avendo saputo mantenere le sue promesse di benessere, la prima preoccupazione dei grandi decisori - multinazionali, finanzieri, lobby invisibili e onnipotenti - è quella di disabilitare le residue funzionalità dei cittadini, rendendoli completamente inermi e abituandoli alla rassegnazione come condizione di assoluta normalità: la verità ufficiale non si discute, gli ordini si eseguono e si subiscono in silenzio.

Ai sudditi si impedisce persino di votare, di scegliere, di decidere di che morte dovrà morire il loro famoso paese, il paese meraviglioso di Primo Levi e di tutti gli apostoli che il 15 febbraio 2003 si ritrovarono a Roma per avvertire i signori della guerra che il popolo, il popolo italiano, non era più disposto a credere a nessuna delle loro sanguinose menzogne.

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